Gli effetti della cooperazione internazionale allo sviluppo sull’ambiente in Africa
Come dichiarato in varie occasioni dall’ex-Segretario Generale delle Nazioni Unite
Kofi Annan, per molte persone in tutto il mondo la percezione dell’Africa è associata
a immagini di conflitti, guerre civili, povertà, disagi e difficoltà sociali. Purtroppo
tali calamità corrispondono davvero, in parte, alla realtà di vari Paesi africani,
sebbene non di tutti (Dambisa Moyo, 2009)... Ma può, questa popolare narrazione, essere
considerata come un’esaustiva rappresentazione del continente, che tenga conto delle
sue innumerevoli specificità e differenze interne?
Naturalmente no. Esiste
un’altra Africa, che è tuttavia poco presente sui media e nei dibattiti pubblici:
l’Africa delle inesauribili risorse umane e naturali, dei paesaggi ancora incontaminati
e delle masse di giovani decisi ad impegnarsi per migliorare il proprio futuro. Sfortunatamente,
tale ricchezza è nota principalmente tra coloro che mirano a sfruttarla a proprio
vantaggio, sottraendola ai legittimi beneficiari. Inoltre, il processo di utilizzo
illecito delle risorse è facilitato proprio dall’intervento di referenti locali, che
agiscono mossi da un interesse personale, senza prendere in esame le conseguenze sull’ambiente
e ignorando totalmente le esigenze presenti e future delle comunità locali. L’Africa
si sta velocemente impoverendo delle proprie ricchezze, dunque, a causa di azioni
portate avanti in nome dello sviluppo del continente o sotto la bandiera della cooperazione
internazionale. Gli imprenditori stranieri che investono tempo ed ingenti capitali
nella ricerca di miniere o risorse ancora disponibili non sono mossi dal desiderio
di promuovere la crescita economica interna o il benessere delle popolazioni locali.
Nella maggior parte dei casi le multinazionali agiscono in mancanza di leggi a tutela
dell’ambiente e dei lavoratori. Estrazioni di petrolio e di minerali, commercio di
legname, caccia di specie animali a rischio, pesca intensiva, espropriazione delle
terre finalizzata alla produzione di bio-combustibili (per non parlare del traffico
di persone, vera e propria aberrazione della natura umana): tutte queste attività
hanno un impatto devastante sull’ecosistema locale e sul tessuto sociale, favoriscono
il processo di emigrazione, la fuga di risorse umane e l’indebolimento complessivo
del continente. Occorre che Governi e società dei paesi più sviluppati, e le classi
dirigenti africane, sappiano che stanno partecipando a un rapido declino dell’Africa,
privata di quelle fondamentali forze necessarie alla propria auto-rigenerazione e
allo sviluppo.
Nella discussione pubblica relativa alle relazioni internazionali,
gli esperti lasciano largo spazio ai meriti della cooperazione mentre poca attenzione
è riservata all’analisi quantitativa e qualitativa del beneficio che le società locali
traggono dalle attività di aiuto allo sviluppo, di sfruttamento delle risorse e dal
commercio mondiale. Alcune domande di fondo si fanno dunque strada: le relazioni economiche
mondiali tengono sufficientemente conto delle necessità delle popolazioni o esse rispondono
semplicemente agli interessi geo-strategici degli Stati più forti, delle leadership
politiche ed economiche? Chi guadagna realmente dagli investimenti stranieri sul territorio
africano? Come mai agli attori esterni è accordata una sorta di immunità, nella maggior
parte dei casi, anche quando operano in violazione delle normative nazionali? Oggi
diversi governi africani puntano ad attrarre capitale estero, pronti anche a modificare
la legislazione nazionale, laddove essa non dovesse risultare consona a tale scopo
o al fine di aumentare i margini di profitto destinati agli attori esterni. Il più
delle volte non sono neanche previste forme attraverso le quali gli introiti di tali
attività possano tornare a beneficio del continente. La questione dell’appropriazione
indebita delle terre costituisce oggi un elemento cruciale al centro del dibattito
pubblico, anche a causa dell’urbanizzazione selvaggia che interessa molti Stati africani.
Già nel 2009 il Premio Nobel per la pace, l’ecologista kenyana Wangari Maathai, denunciava
che l’Africa ha il tasso di urbanizzazione più elevato al mondo e che – a questi ritmi
– la concentrazione demografica nelle città risulterà duplicata nell’arco di venti
anni. Maathai sottolineava, inoltre, la stretta dipendenza delle comunità rurali dalla
terra, per l’autosostentamento economico ma anche per il significato culturale che
essa assume nella tradizione locale (Wangari Maathai, 2009). Alla luce di questi
dati, è difficile credere che le leadership politiche africane comprendano appieno
le conseguenze di alcune decisioni da loro assunte, riguardo alla proprietà e alla
vendita di centinaia di migliaia di ettari di terra a investitori stranieri e multinazionali.
Uno studio recente condotto dall’Agenzia Reuters in Etiopia, Mali, Mozambico, Sierra
Leone, Sudan, Tanzania e Zambia, denuncia che “Ricchi investitori statunitensi, europei,
arabi ed asiatici stanno accumulando grandi quantità di terra coltivabile, grazie
ad accordi poco trasparenti e che conferiscono loro ampio controllo sulla produzione
alimentare originariamente destinata alle popolazioni povere del mondo” (Reuters,
8 giugno 2011). La ricerca sottolinea anche che tali negoziati prevedono lo spostamento
dei residenti nelle comunità più povere mentre i campi arabili vengono in larga parte
convertiti alle coltivazioni di bio-combustibili. Inoltre, agli imprenditori stranieri
è consentito l’usufrutto gratuito di terreno fertile, fino a 100,000 ettari e per
50 anni. Buona parte di essi non hanno a cuore la salvaguardia della fertilità del
terreno, utilizzano quelle sostanze chimiche che distruggono la terra e gli alberi,
accelerando pericolosamente il processo di desertificazione. Infine, generalmente
tale forma di commercio della terra non prevede che un piccolo o inesistente beneficio
per le comunità locali. Perché, dunque, i governi africani accettano tali condizioni
di scambio? Quale legislazione potrebbe assicurare un’equa distribuzione e la proprietà
della terra agli africani?
Combattere tali dinamiche distruttive significa
mettere al primo posto la salvaguardia della dignità umana e dell’ambiente, controllare
lo sfruttamento delle risorse attraverso una legislazione nazionale equa, adeguata.
E’ necessario anche promuovere una responsabilità sociale e la mutua collaborazione
come strumento alla base dello sviluppo socio-economico mondiale. Nell’Enciclica
Caritas inVeritate, commentando le attività legate al business e alla
cooperazione, Papa Benedetto XVI afferma che il rafforzamento delle comunità di base
e il miglioramento delle loro condizioni di vita deve essere considerata una priorità
assoluta...La cooperazione internazionale richiede la presenza di persone desiderose
di partecipare al processo di sviluppo economico ed umano attraverso uno spirito di
solidarietà, di impegno e di rispetto reciproco. Più recentemente, rivolgendosi
a sei nuovi Ambasciatori presso la Santa Sede, ricevuti in Vaticano in occasione della
presentazione delle Lettere Credenziali, Benedetto XVI ha ribadito che “adottare uno
stile di vita rispettoso dell’ambiente e promuovere l’uso delle energie pulite, che
preservino l’uomo e l’intero patrimonio della Creazione, è un imperativo urgente e
dovrebbe essere una priorità politica ed economica universalmente riconosciuta” (9
June 2011). É pertanto fondamentale riconoscere la stretta relazione che lega lo
sviluppo umano alla tutela dell’ambiente naturale. La solidarietà sociale e la
responsabilità collettiva richiedono che ogni intervento concernente la terra o le
altre risorse naturali prenda innanzitutto in considerazione gli impatti sull’ambiente
e preveda un ritorno a beneficio delle comunità locali. Dunque, in ogni iniziativa
di natura socio-economica e geo-politica, tutti condividiamo la responsabilità di
mantenere l’enfasi sulla centralità della persona umana e del suo ambiente, assicurandone
un pieno ed incondizionato rispetto.
(A cura di P. Moses Hamungole, del
programma inglese per l’Africa)