Tensione nello Yemen: scontri tra esercito e oppositori nella capitale Sanaa
Torna a salire la tensione nello Yemen. Nella capitale Sanaa sono in corso combattimenti
tra l’esercito regolare e le milizie della potente tribù al Hashid, che ha appoggiato
la rivolta contro il presidente Saleh. In mattinata sono stati sospesi i voli in partenza
dalla capitale: solo ieri ci sono stati una quarantina di morti, quindici quelli che
hanno perso la vita la notte scorsa. Scontri, in queste ore, si segnalano anche nella
città meridionale di Taiz. Ma quale sarà l’esito del processo rivoluzionario nel Paese?
Eugenio Bonanata lo ha chiesto a Farian Sabahi, docente di Storia dei
Paesi islamici all’università di Torino e autrice del libro "Storia dello Yemen":
R. – Il ruolo
dei miliziani che fanno capo alla tribù degli al Hashid è molto importante perché
di quella stessa confederazione fanno parte anche il clan e la tribù dello stesso
presidente Saleh che è al potere da 33 anni. Il ruolo dei miliziani tribali è importante
anche perché si aggiunge alla ribellione del generale Alì Mohsin e dei suoi uomini
che un tempo erano tutti fedeli al presidente Saleh.
D. - Assisteremo
ad una recrudescenza della violenza?
R. – C’è stata di fatto una escalation
di violenza proprio negli ultimi 10 giorni, nell’ultima settimana, perché il presidente
Saleh sembrava voler firmare la transizione sponsorizzata dai Paesi arabi del Golfo,
ma in realtà poi si è trattato di un bluff e quindi l’opposizione è nuovamente insorta.
D.
– Secondo lei quale sarà l’esito della rivolta alla luce dell’impegno dei miliziani
tribali?
R. – L’impressione è che Saleh abbia ormai perso consenso in
Yemen e che quindi l’opposizione sia decisa a lottare fino al momento in cui riuscirà
a scacciarlo. Molto dipenderà dalla posizione che prenderà l’Occidente perché non
dobbiamo dimenticare che se Saleh regna da 33 anni è perché è capace di mettere una
tribù contro l’altra e anche di agitare lo spettro del terrorismo di al Qaeda per
ottenere aiuti militari e consenso dall’Occidente. Dopo l’11 settembre, Washington
ha dato al presidente yemenita diversi milioni di dollari, soprattutto il sostegno
militare necessario a schiacciare alcuni gruppi di opposizione al nord, che sono stati
spacciati per pericolosi terroristi e sono stati colpiti dai droni statunitensi. Al
sud, invece, c’è un movimento secessionista che cerca di abbandonare il nord a 21
anni dall’unificazione.
D. – Secondo lei possiamo assistere ad una saldatura
tra i due movimenti, cioè quello secessionista al sud di ispirazione qaedista e quello
antigovernativo?
R. – Sì, di fatto ormai il sud secessionista sta combattendo
nell’opposizione perché in questi 21 anni di unificazione si è sentito colonizzato.
Il grosso problema è che il regime di Saleh ha fatto di Sanaa la capitale dello Yemen
unificato il 22 maggio 1990, ma non ha fatto gli investimenti necessari al sud. Pensiamo
al porto di Aden che è stato dato in concessione alla stessa società che gestisce
il porto di Gibuti nel Corno d’Africa: i due porti sono ovviamente in concorrenza
e la società che gestisce il porto di Gibuti non ha nessuna intenzione di fare gli
investimenti ad Aden. Detto questo, il sud si sente colonizzato dal nord.
D.
– A quattro mesi dall’inizio della rivolta quali sono gli effetti sulla società yemenita?
R.
– C’è molto timore. Già era un Paese dove non era così facile muoversi da una parte
all’altra del Paese. Anche l’Italia ha chiuso temporaneamente l’ambasciata e rimpatriato
il personale per le minacce che ci sono state nei confronti dei diplomatici. Quindi
una situazione estremamente pericolosa, ma una situazione in cui paradossalmente le
donne si stanno non dico emancipando ma stanno avendo una maggiore partecipazione
sociale. Questo perché quando mariti, padri, figli e fratelli sono rinchiusi nelle
carceri e sono perseguitati queste donne sono state obbligate a scendere in strada
e a reclamare la liberazione dei loro cari. Dunque, maggiore democrazia, ma anche
maggiori diritti per sé in un Paese dove la violenza domestica non è ancora reato,
dove soltanto tre donne siedono in Parlamento; il Paese delle “spose bambine”, dove
soltanto il 31 per cento delle femmine viene iscritto alle scuole elementari.(bf)