La figura di Mosè al centro dell'udienza generale: il Papa continua le sue catechesi
sulla preghiera
Benedetto XVI, durante l’udienza generale in Piazza San Pietro, ha proseguito la
sua catechesi sulla preghiera parlando di Mosè "proprio come uomo di preghiera. Mosè,
il grande profeta e condottiero del tempo dell’Esodo - ha rilevato - ha svolto la
sua funzione di mediatore tra Dio e Israele facendosi portatore, presso il popolo,
delle parole e dei comandi divini, conducendolo verso la libertà della Terra Promessa,
insegnando agli Israeliti a vivere nell’obbedienza e nella fiducia verso Dio durante
la lunga permanenza nel deserto, ma anche, e direi soprattutto, pregando. Egli prega
per il Faraone quando Dio, con le piaghe, tentava di convertire il cuore degli Egiziani
(cfr Es 8–10); chiede al Signore la guarigione della sorella Maria colpita dalla lebbra
(cfr Nm 12,9-13), intercede per il popolo che si era ribellato, impaurito dal resoconto
degli esploratori (cfr Nm 14,1-19), prega quando il fuoco stava per divorare l’accampamento
(cfr Nm 11,1-2) e quando serpenti velenosi facevano strage (cfr Nm 21,4-9); si rivolge
al Signore e reagisce protestando quando il peso della sua missione si era fatto troppo
pesante (cfr Nm 11,10-15); vede Dio e parla con Lui «faccia a faccia, come uno parla
con il proprio amico» (cfr Es 24,9-17; 33,7-23; 34,1-10.28-35)".
"Anche
quando il popolo, al Sinai - ha proseguito - chiede ad Aronne di fare il vitello d’oro,
Mosè prega, esplicando in modo emblematico la propria funzione di intercessore. L’episodio
è narrato nel capitolo 32 del Libro dell’Esodo ed ha un racconto parallelo in Deuteronomio
al capitolo 9. È su questo episodio che vorrei soffermarmi nella catechesi di oggi,
e in particolare sulla preghiera di Mosè che troviamo nella narrazione dell’Esodo.
Il popolo di Israele si trovava ai piedi del Sinai mentre Mosè, sul monte, attendeva
il dono delle tavole della Legge, digiunando per quaranta giorni e quaranta notti
(cfr Es 24,18; Dt 9,9). Il numero quaranta ha valore simbolico e significa la totalità
dell’esperienza, mentre con il digiuno si indica che la vita viene da Dio, è Lui che
la sostiene. L’atto del mangiare, infatti, implica l’assunzione del nutrimento che
ci sostiene; perciò digiunare, rinunciando al cibo, acquista, in questo caso, un significato
religioso: è un modo per indicare che non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola
che esce dalla bocca del Signore (cfr Dt 8,3). Digiunando, Mosè mostra di attendere
il dono della Legge divina come fonte di vita: essa svela la volontà di Dio e nutre
il cuore dell’uomo, facendolo entrare in un’alleanza con l’Altissimo, che è fonte
della vita, è la vita stessa".
"Ma - ha detto il Papa - mentre il Signore,
sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo già la trasgredisce.
Incapaci di resistere all’attesa e all’assenza del mediatore, gli Israeliti chiedono
ad Aronne: «Fa’ per noi un dio che cammini alla nostra testa, perché a Mosè, quell’uomo
che ci ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosa sia accaduto» (Es
32,1). Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore,
è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova
nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile,
alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere
il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi,
ai propri progetti. Quanto avviene al Sinai mostra tutta la stoltezza e l’illusoria
vanità di questa pretesa perché, come ironicamente afferma il Salmo 106, «scambiarono
la loro gloria con la figura di un toro che mangia erba» (Sal 106,20). Perciò il Signore
reagisce e ordina a Mosè di scendere dal monte, rivelandogli quanto il popolo stava
facendo e terminando con queste parole: «Ora lascia che la mia ira si accenda contro
di loro e li divori. Di te invece farò una grande nazione» (Es 32,10). Come con Abramo
a proposito di Sodoma e Gomorra, anche ora Dio svela a Mosè che cosa intende fare,
quasi non volesse agire senza il suo consenso (cfr Am 3,7)". In realtà - ha continuato
il Papa - quel «lascia che la mia ira si accenda» "è detto proprio perché Mosè intervenga
e Gli chieda di non farlo, rivelando così che il desiderio di Dio è sempre la salvezza.
Come per le due città dei tempi di Abramo, la punizione e la distruzione, in cui si
esprime l’ira di Dio come rifiuto del male, indicano la gravità del peccato commesso;
allo stesso tempo, la richiesta dell’intercessore intende manifestare la volontà di
perdono del Signore. Questa è la salvezza di Dio, che implica misericordia, ma insieme
anche denuncia della verità del peccato", così che "il peccatore, riconosciuto e rifiutato
il proprio male, possa lasciarsi perdonare" da Dio. "La preghiera di intercessione
rende così operante, dentro la realtà corrotta dell’uomo peccatore, la misericordia
divina, che trova voce nella supplica dell’orante e si fa presente attraverso di lui
lì dove c’è bisogno di salvezza".
"La supplica di Mosè - ha spiegato
il Papa - è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce
dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto,
per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza
liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli
Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne
e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 32,12)". L’opera iniziata - ha aggiunto
- "deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere
interpretato come il segno di una incapacità divina di portare a compimento il progetto
di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il
garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato
che uccide". "Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono,
anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato" e
questo non si può accettare. "Mosè - ha detto il Pontefice - ha fatto esperienza concreta
del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora,
con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per
la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore,
per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele
sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella
salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si
compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore,
è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio
di bene".
"Poi, Mosè - ha proseguito - si appella alla fedeltà di Dio,
rammentandogli le sue promesse: «Ricòrdati di Abramo, di Isacco, di Israele, tuoi
servi, ai quali hai giurato per te stesso e hai detto: “Renderò la vostra posterità
numerosa come le stelle del cielo, e tutta questa terra, di cui ho parlato, la darò
ai tuoi discendenti e la possederanno per sempre”» (Es 32,13). Mosè fa memoria della
storia fondatrice delle origini, dei Padri del popolo e della loro elezione, totalmente
gratuita, in cui Dio solo aveva avuto l’iniziativa. Non a motivo dei loro meriti,
essi avevano ricevuto la promessa, ma per la libera scelta di Dio e del suo amore
(cfr Dt 10,15). E ora, Mosè chiede che il Signore continui nella fedeltà la sua storia
di elezione e di salvezza, perdonando il suo popolo. L’intercessore non accampa scuse
per il peccato della sua gente, non elenca presunti meriti né del popolo né suoi,
ma si appella alla gratuità di Dio: un Dio libero, totalmente amore, che non cessa
di cercare chi si è allontanato, che resta sempre fedele a se stesso e offre al peccatore
la possibilità di tornare a Lui e di diventare, con il perdono, giusto e capace di
fedeltà. Mosè chiede a Dio di mostrarsi più forte anche del peccato e della morte,
e con la sua preghiera provoca questo rivelarsi divino. Mediatore di vita, l’intercessore
solidarizza con il popolo; desideroso solo della salvezza che Dio stesso desidera,
egli rinuncia anche alla prospettiva di diventare un nuovo popolo gradito al Signore.
La frase che Dio gli aveva rivolto, «di te invece farò una grande nazione», non è
neppure presa in considerazione dall’“amico” di Dio, che invece è pronto ad assumere
su di sé non solo la colpa della sua gente, ma tutte le sue conseguenze. Quando, dopo
la distruzione del vitello d’oro, tornerà sul monte per chiedere di nuovo la salvezza
per Israele, dirà al Signore: «E ora, se tu perdonassi il loro peccato! Altrimenti,
cancellami dal tuo libro che hai scritto» (v. 32). Con la preghiera, desiderando il
desiderio di Dio, l’intercessore entra sempre più profondamente nella conoscenza del
Signore e della sua misericordia e diventa capace di un amore che giunge fino al dono
totale di sé".
"I Padri della Chiesa - ha proseguito a braccio - hanno
visto in Mosè che sta sulla cima del monte, faccia a faccia con Dio, e si fa intercessore
per il suo popolo, offre se stesso ... una prefigurazione di Cristo che sull'alto
della Croce realmente sta davanti a Dio, non solo come amico ma come figlio" e "diventa
peccato, porta i nostri peccati per salvarci". "E penso - aggiunge - che dobbiamo
meditare questa realtà: Cristo sta davanti alla faccia di Dio e prega per me ... ha
sofferto e soffre per me, si è identificato con me prendendo il nostro corpo, l'anima
umana e ci invita a entrare in questa sua identità facendoci con Lui un solo corpo
e un solo spirito". Gesù "dall'alto della Croce ha portato non nuove leggi ... ma
come Nuova alleanza ha portato se stesso, il suo corpo, il suo sangue, così ci fa
consanguinei con lui ... identificati con lui".
Benedetto XVI termina
la catechesi con le parole dell’apostolo Paolo ai cristiani di Roma: «Chi muoverà
accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica. Chi condannerà?
Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi. Chi
ci separerà dall’amore di Cristo? […] né morte né vita, né angeli né principati […]
né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù,
nostro Signore» (Rm 8,33-35.38.39).