Questione israelo-palestinese: Netanyahu lascia gli Usa ma il dialogo non riparte
Il premier israeliano Benyamin Netanyahu rientra oggi in patria dopo un viaggio di
5 giorni negli Stati Uniti. Parlando ieri al Congresso statunitense in sessione congiunta,
Netanyahu ha chiuso le porte su molte questioni cruciali, come quella di Gerusalemme:
"Israele - ha detto - sarà generoso nei confronti di un futuro Stato palestinese,
ma non tornerà mai ai confini del ’67". Il presidente palestinese Mahmud Habbas ha
replicato che in questo modo lo Stato ebraico pone altri ostacoli sulla via della
pace. Ma cosa rappresentano i confini del 1967? Eugenio Bonanata lo ha chiesto
a Giorgio Bernardelli, esperto di questioni mediorientali:
R. – Comprendono
i territori occupati da Israele, ma mai ufficialmente annessi in questi 40 anni. Sono
i territori in cui si è sviluppata ormai, in questi decenni, l’attività di colonizzazione,
con gli insediamenti israeliani che sono stati costruiti in queste zone controllate
anche militarmente da Israele. E’ un fatto che Israele si è ingrandito in questi 40
anni e che oggi vuol dire parlare di 250 mila israeliani che vivono all’interno di
questi territori. E’ una proporzione abbastanza alta se si pensa che lo Stato di Israele
ha una popolazione di circa 7 milioni di abitanti.
D. - Tornare indietro
rispetto a questa situazione è molto difficile …
R. - Sì, però anche
qua bisogna stare attenti alla guerra delle parole. Ovviamente nessuno pensa, e neanche
Obama, ma nemmeno la stessa leadership palestinese, ad un ritorno automatico alla
situazione del 1967. Il problema, però, è politico. Netanyahu dice: “Noi teniamo gli
insediamenti più grandi e basta! Siamo disposti ad alcune dolorose concessioni”, ma
senza specificare minimamente quali, il che lascia comunque dei dubbi sulla portata
di questa affermazione. Questa è una posizione molto forte, una posizione in aperto
contrasto con quello che ha detto Obama non più di qualche giorno fa e, soprattutto,
è una posizione che in questo momento fa parte di quella battaglia sulle parole che
viene a segnare una situazione di assoluto stallo. Oggi il negoziato in Medio Oriente
non c’è. Sono mesi che le trattative sono ferme dopo il rifiuto, proprio da parte
del governo di Netanyahu, di aderire alla proposta di proroga di quel blocco nella
costruzione di nuovi insediamenti fino alla definizione, appunto, di un orizzonte
di confini sul quale trattare. Il negoziato è fermo. Lo stesso inviato del presidente
Obama per il Medio Oriente, il senatore George Mitchell, si è dimesso la settimana
scorsa. Oggi, siamo in una situazione di assoluta assenza di negoziato. (ma)
Dunque
si profila un nuovo stallo nei colloqui tra israeliani e palestinesi. Una situazione
che secondo molti osservatori potrebbe legarsi pericolosamente alle rivoluzioni in
atto nel mondo arabo. Ma la Chiesa locale come sta vivendo questo momento segnato
dalla presa di posizione israeliana. Eugenio Bonanata ne ha parlato con padre
Pierbattista Pizzaballa, custode di Terra Santa:
R. – Il processo
di pace, diciamo la verità, in questi ultimi anni era totalmente fermo e non si parlava
più di niente. Questa è parte del problema, a causa anche, da un lato, della difficoltà
del governo israeliano a prendere iniziative e, dall’altro, anche a causa della divisione
all’interno dei palestinesi. I cambiamenti all’interno del mondo arabo hanno mutato
notevolmente la situazione in Terra Santa: c’è stata l’unificazione delle due fazioni
palestinesi, che ha costretto anche, in un certo senso, sia l’amministrazione statunitense,
come anche il governo israeliano, a fare delle mosse. Quindi, da un lato, l’aspetto
positivo è che si ricomincia a discutere di cose concrete e non si fanno appelli generici,
dall’altro, siamo ancora, come abbiamo visto, molto lontani da punti di incontro sui
problemi concreti che sono i confini, i profughi e Gerusalemme.
D. -
Come si guarda al futuro?
R. – Certamente nel breve termine è ancora
molto incerto. Quali che siano le iniziative, quali che siano gli eventuali accordi,
semmai ci saranno, richiederanno sicuramente un tempo medio-lungo e non breve, perché
qualcosa si sblocchi.
D. – I palestinesi puntano al riconoscimento del
proprio Stato a settembre, in sede Onu. Come valuta questa mossa?
R.
– E’ un modo, anche questo, di forzare la situazione, di creare dei fatti compiuti
in modo da costringere ad un accordo, ad un negoziato concreto sulle parti e anche,
in un certo senso, a smuovere la comunità internazionale che, forse, ultimamente,
si era un po’ distratta. Sicuramente si deve arrivare a questo. Adesso le modalità,
i tempi sicuramente saranno suscettibili di grande discussione da tutte le parti,
ma il tema sicuramente deve essere affrontato prima o poi ed è meglio farlo quanto
prima.
D. – Quali le speranze riposte nella comunità internazionale?
R.
– La comunità internazionale ha sicuramente un ruolo importante: non può sostituirsi
alle due parti, che devono trovare sicuramente un accordo tra loro, ma può sicuramente
avere una forte influenza su di esse. Ultimamente, come ho detto, era un po’ lontana
per tante, tantissime ragioni, ma il ruolo è determinante: senza il supporto e l’accompagnamento
della comunità internazionale sarà quasi impossibile sbloccare questa situazione.
(ap)