Mons. Vegliò: no alle politiche immigratorie troppo restrittive
Il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli itineranti,
arcivescovo Antonio Maria Vegliò e il sottosegretario del dicastero, padre
Gabriele Bentoglio, hanno compiuto dal 2 al 14 maggio scorsi una visita pastorale
in Australia, incontrando le comunità immigrate, i vescovi locali, i cappellani e
gli operatori pastorali. La visita aveva lo scopo di incoraggiare l’impegno della
Chiesa in un settore particolarmente importante e impegnativo. In Australia, infatti,
su una popolazione di circa 21 milioni di abitanti, ci sono circa 5 milioni lavoratori
migranti, 22.500 rifugiati e 2.350 richiedenti asilo. Al microfono di Fabio Colagrande,
l’arcivescovo Vegliò descrive alcuni aspetti della pastorale per i migranti e i rifugiati
messa in campo dalla Chiesa australiana:
R. - La pastorale
specifica dei migranti e dei rifugiati affronta sempre nuove sfide, anche in Australia.
Da una parte bisogna provvedere alle necessità pastorali dei migranti anziani o di
comunità che stanno rapidamente invecchiando, ma che necessitano ancora di particolare
attenzione, dall’altra sono in crescente aumento le comunità con migranti molto giovani
o gli studenti internazionali. Non è sempre facile rispondere alle loro necessità
pastorali: penso per esempio agli studenti stranieri universitari o ai giovani delle
comunità africane. Ho avuto l’impressione che la Chiesa in Australia si stia molto
impegnando per favorire un dialogo sempre più intenso fra la Chiesa da cui vengono
i migranti e la Chiesa in cui arrivano, perché a nessuno manchi l’amore di Cristo
che si fa visibile nella concretezza di una assistenza pastorale ben indirizzata.
Ho visto che si punta molto anche sull’impegno personale degli stessi immigrati. Resto
sempre più ammirato quando visito comunità che non hanno sacerdoti che parlano la
loro lingua, ma si avvalgono di catechisti che si impegnano a radunare i connazionali
per un incontro di preghiera e di riflessione sulla Parola di Dio. Questi incontri
diventano luoghi propizi anche per l’accoglienza dei nuovi arrivati. In alcuni casi,
alcuni Ordinari stanno favorendo la formazione di Diaconi permanenti. È bello poi
vedere che nei seminari diocesani – come pure nelle congregazioni religiose impegnate
nella pastorale giovanile – le nuove vocazioni sorgono anche all’interno delle comunità
etniche. Indubbiamente questo è un segno che la pastorale migratoria della Chiesa
sta dando frutti positivi.
D. - A che punto è invece lo sviluppo della
pastorale per i migranti e i rifugiati messa in campo dalla Chiesa australiana? Ci
sono aspetti da incrementare?
R. - In effetti, la Chiesa in Australia
non perde occasione per intervenire nel dialogo con le istituzioni governative sulla
difesa della dignità di ogni persona umana, anche di chi si trova in situazione irregolare,
e lo fa proprio come azione pastorale. Per esempio, so che da oltre un anno cercano
di assicurare la presenza stabile di un sacerdote e di una religiosa presso il centro
di detenzione di Christmas Island, mentre gli altri centri sono regolarmente visitati
da Operatori che offrono un aiuto pastorale a tutti, a prescindere dalla fede professata.
Questa presenza è fatta di ascolto e di incoraggiamento che poi si riflettono nell’intera
società dando voce alle storie di vita di coloro che sono detenuti nei centri, facendo
conoscere le loro vicende e le loro aspirazioni.
D. - La legislazione
australiana è particolarmente dura nei confronti dei migranti privi di documenti.
Possiamo parlare di una realtà che sfida la capacità di educazione all’accoglienza
della Chiesa locale?
R. - Ognuno di noi vuole stare bene e vivere in
pace. Nessuno lascia il proprio Paese, la casa e la famiglia per imbarcarsi e rischiare
la vita a meno che vi sia costretto dall’urgenza di trovare sicurezza per sé e per
i propri cari. La Chiesa si impegna a mettere in guardia dalla criminalizzazione dei
migranti e dallo stereotipo che essi siano una minaccia per la sicurezza, esortando
invece a guardare al loro contributo positivo e al ruolo importante che essi svolgono
per lo sviluppo tanto dei Paesi che li accolgono quanto di quelli da cui provengono,
anche sotto l’aspetto economico, con il loro lavoro e con le loro rimesse. Più in
generale, la Chiesa sollecita una riflessione sulla coerenza storica: potremmo comprendere
l’Australia di oggi senza il contributo dei lavoratori migranti? Da qui nasce l’attenzione
sulle conseguenze di politiche migratorie eccessivamente restrittive che, a mio avviso,
non possono fermare chi è in cerca di sicurezza e, anzi, rischiano di spingere i migranti
nelle mani di trafficanti e sfruttatori. È ovvio allora che la Chiesa sia preoccupata
nei confronti di politiche che si concentrano solo sui respingimenti.