Orissa: giustizia ancora lontana per i cristiani vittime dei pogrom del 2008
Irregolarità di ogni tipo, vizi procedurali ed estrema lentezza segnano il passo dei
processi sulle violenze contro la comunità cristiana dello stato indiano dell’Orissa,
avvenute nell’agosto del 2008 e costate la vita a decine di persone. Secondo i dati
riportati dall'agenzia AsiaNews, finora si è registrata una sola condanna per omicidio
ogni 20 casi registrati delle brutali violenze perpetrate dai radicali indù. In totale,
delle 3.232 denunce penali presentate, solo 828 sono state convertite in deposizioni
vere e proprie (First Information Reports - Firs). Poi, un’ulteriore scrematura,
con 327 casi arrivati davanti a un giudice: in 169 casi ha assolto in pieno gli imputati;
in 86 ha emesso le condanne, ma solo per le imputazioni minori. Altri 90 casi attendono
ancora l’esame in tribunale. Secondo dati ufficiali, 1.597 indagati sarebbero stati
prosciolti. Il numero, comunque elevato, non include le migliaia di persone che non
potevano essere arrestate e dunque non portate in giudizio. A quasi 3 anni dai fatti,
e dopo due Fast Track Courts (i tribunali speciali che dovrebbero giudicare
con rito abbreviato) l’applicazione della giustizia continua a essere disattesa. Anche
quando le denunce arrivano in tribunale, le vittime cristiane subiscono soprusi di
ogni tipo: dalla presentazione del caso all’esame dei testimoni, dalla presenza intimidatoria
in aula dei sicari del “Sangh” - il Rashtriya Swayamsevak Sangh, organizzazione
paramilitare indù e ultranazionalista - dal comportamento dei giudici a quello degli
avvocati della difesa, tutto è investito di anomalie e irregolarità. I legali delle
vittime non hanno ruolo in tribunale, e solo in rarissime occasioni ottengono di essere
ascoltati. I parenti di chi è morto e i testimoni possono a malapena deporre le loro
testimonianze, a causa delle aperte minacce subite. Se la gente prova a rivolgersi
ai giudici per chiedere il loro aiuto, questi rispondono “abbiamo inviato le disposizioni
alla polizia”, che non dà mai una risposta. Anche i video e le foto dell’epoca, ripresi
con telecamere e telefoni cellulari, non vengono esaminati, ne’ nelle inchieste, ne’
nei processi. Ad oggi, la polizia e la Direzione del pubblico ministero non hanno
neppure provato a riaprire o aggiornare i casi. Le violenze esplose il 24 agosto 2008
hanno gravato sull’India con un’eredità pesante. Oltre 14 distretti sui 30 dello Stato
dell’Orissa sono stati colpiti. Seimila case bruciate in 400 villaggi, incluse 296
chiese e altri centri cristiani più piccoli; più di 56mila persone diventate “sfollati
interni”, circa 30mila di loro hanno vissuto per tre mesi in campi profughi governativi.
In quel periodo, oltre 20mila uomini, donne e bambini si sono nascosti per giorni
nelle foreste. 10mila persone devono ancora tornare a casa. Almeno mille cristiani
hanno subito minacce e intimidazioni dai loro vicini: questi ammettono il loro rientro
a casa solo se accettano di convertirsi all’induismo. Le autorità del distretto, del
tutto impotenti nel farli ritornare nei loro villaggi d’origine, hanno relegato alcuni
nei cosiddetti “ghetti cristiani”. Molti altri hanno lasciato Kandhamal per paura,
o in cerca di lavoro; dai pogrom del 2008, il distretto affronta ancora una profonda
impasse economica. Il governo dell’Orissa riconosce e ammette 52 morti a Kandhamal
durante le violenze del 2007 e del 2008. Di questi, 38 sono cristiani. Tra gli indù,
anche lo Swami Lakshmananda Saraswati, vice presidente del Visva Hindu Parisad
(Vhp), dal cui assassinio per mano di maoisti sono poi scaturite le violenze nell’agosto
2008. I dati raccolti da attivisti cristiani parlano invece di 91 vittime: 38 morte
sul colpo, 41 per ferite subite durante le violenze, 12 in azioni di polizia. Tali
cifre non includono i casi di suicidio, compresi quelli derivanti da una sindrome
post trauma. Essa ha colpito giovani e anziani, colpiti dalle violenze cui hanno assistito,
o abbrutiti dagli anni vissuti nei campi profughi e negli slum. (M.G.)