Festival di Cannes: nei film d'apertura il vuoto e la decadenza della società contemporanea
Alla ricerca di soggetti stravaganti, che possano illustrare alcuni degli aspetti
più inesplicabili dell’esistenza, talvolta i cineasti dimenticano due cose: la semplicità
delle forme narrative e gli elementari, imprescindibili valori della vita. È quanto
accade in queste prime battute del Festival di Cannes, dove sugli schermi si alternano
opere contraddittorie, come “Sleeping Beauty” di Julia Leigh o “We Need to Talk About
Kevin” di Lynne Ramsay. Il primo s’incaglia in una sorta di compiaciuto voyeurismo,
raccontando le pericolose esperienze di una studentessa che, per mantenersi agli studi,
si prostituisce fra i membri di una strana setta di agiati vegliardi. Il secondo s’inerpica
sugli specchi per cercare di spiegare i motivi di una tragedia incomprensibile, la
trasformazione di un bambino viziato e poco amato dalla madre in un adolescente assassino.
Entrambi vogliono raccontare la decadenza della società, ma, nonostante le buone intenzioni,
si perdono in una forma troppo meccanica, prevedibile e pretenziosa, finendo per mettere
in scena il vuoto della loro ispirazione. Ben più riusciti, nonostante la complessità
dell’assunto, altri film si rivelano invece formidabili esploratori del profondo.
“Trabalhar Cansa” di Juliana Rojas e Marco Dutra entra nel concreto di una situazione
di sopravvivenza, in una società, come quella brasiliana, immersa nello stridente
contrasto fra grandi ricchezze e povertà diffusa. Racconta la confusa lotta di una
coppia della classe media per mantenere il suo tenore di vita, evitando di essere
risucchiata dalla disoccupazione e dalla miseria. Se la storia è lineare, i due registi
disseminano il percorso narrativo d’inquietanti dettagli, mettendo in scena l’inaridimento
dei rapporti umani, il sopravvenire degli istinti primari e la totale scomparsa della
solidarietà. La constatazione di essere di fronte a una società in pieno disfacimento
viene anche da “Polisse” di Maiwenn, che mette in scena con grande abilità la routine
quotidiana di una brigata di polizia francese in lotta contro la pedofilia e gli abusi
sui minori. Il film è sul piano cinematografico quello che in pittura si definirebbe
un affresco. La scena, popolata di personaggi, comprende pubblico e privato e racconta
una situazione drammatica, talvolta assurda e inspiegabile, ma sempre coinvolgente
sul piano emotivo. Gli attori sono tanti e tutti bravi, la cineasta tiene dal principio
alla fine le fila della storia, lo spettatore esce dalla sala convinto di aver visto
uno spicchio di vita vissuta. È lo stesso effetto che si ricava dai due migliori film
di questi due primi giorni, “Restless” di Gus Van Sant e “La guerre est declarée”
di Valérie Donzelli, che curiosamente affrontano lo stesso argomento, le emozioni
e i comportamenti degli individui di fronte alla malattia e alla morte. Gus Van Sant
racconta l’incontro fra due adolescenti segnati dal trauma della scomparsa. Lui ha
perduto i genitori, lei vive i suoi ultimi mesi di vita. Il loro amore sopravviverà
alla morte. Valérie Donzelli mette invece in scena la straziante e tenace lotta di
due genitori per tenere in vita il loro bambino. Entrambi i film sono ispirati da
una forza che va al di là della storia, la consapevolezza della finitudine dell’esistenza
ma anche dell’irrevocabile dovere di vivere. (Da Cannes, Luciano Barisone)