Prosegue l'offensiva del regime siriano contro le roccaforti delle proteste. In Yemen,
6 morti a Sanaa e nel sud
Dopo la Libia, recentemente sospesa, anche la Siria rimane fuori dal Consiglio per
i diritti umani delle Nazioni Unite, con sede a Ginevra. Damasco ha infatti rinunciato
a candidarsi perché, dopo le repressioni a Daraa ed in altre città, molti Paesi membri
dell'Onu non l'avrebbero votata. Sul terreno, poi, prosegue cruenta la repressione
delle proteste. Il servizio di Marina Calculli:
E intanto
infuria la protesta anche in Yemen, dove ieri 6 persone sono morte ed altre 50 sono
rimaste ferite nel corso di scontri provocati dalle forze di sicurezza, che cercavano
di disperdere alcune manifestazioni anti-regime. I fatti più gravi nella capitale
Sanàa e a Taez, nel sud del Paese. Ma per un’analisi sulla crisi yemenita - e sulle
differenze con quelle dell’area nord africana, tra cui la Libia - Giancarlo La Vella
ne ha parlato con Paolo Branca, docente di Islamistica all’Università Cattolica di
Milano:
R. – Sicuramente
la Libia e lo Yemen sono molto diversi dalla Tunisia e dall’Egitto anche come composizione
della società, come evoluzione delle istituzioni e per cui l’andamento è notevolmente
diverso. Certo sia la Libia che lo Yemen sono dei Paesi ancora molto arcaici, tribali,
divisi al loro interno. Lo Yemen del Nord e del Sud si sono riunificati nel ’90, ma
si tratta di queste riunificazioni che lasciano – diciamo così - molti scontenti,
perché c’è sempre una parte dominante rispetto ad un’altra; c’è un presidente, che
è a capo del Paese dal 1978: quindi per certi aspetti è sicuramente un desiderio di
cambiamento, che fatica, però, a trovare i canali attraverso i quali esprimersi ed
imprimere una trasformazione graduale del Paese, proprio perché manca ancora una società
civile ed una classe media e prevalgono solidarietà di tipo etnico e tribale.
D.
– Genericamente le proteste chiedono più democrazia, ma con quale spirito l’opposizione
yemenita, e anche l’intero popolo yemenita, guarda quelli che sono gli attuali modelli
di democrazia nel mondo?
R. – Temo che di questi movimenti sappiamo soprattutto
quello che non vogliono: non vogliono più la dittatura; non vogliono più un capo unico
ed un partito unico, che da decenni governa e soprattutto gestisce anche forme di
corruzione e di nepotismo. Le idee su cosa fare dopo sono diversificate, perché in
Yemen ci sono anche degli oppositori di sinistra, oltre ai religiosi. Si è visto,
però, come si siano anche coordinati almeno per quest’obiettivo simbolico che – come
in Egitto, in Tunisia e in Libia – hanno chiesto che almeno cambi la faccia della
persona che ormai da troppo tempo ha in mano tutto.
D. – Rende più difficili
le cose il fatto che - è noto - in Yemen ci sia una intromissione forte di al Qaeda
sul territorio?
R. – Certamente laddove ci sono forti movimenti di tipo fondamentalista,
addirittura gruppi armati eversivi, la transizione diventa più complicata e si hanno
dei grossi punti di domanda su cosa potrà succedere dopo. Il timore diffuso, a livello
internazionale, è che si entri nella spirale di una guerra civile, senza uscita, come
è successo in Somalia… Posso capire l’apprensione ed anche la prudenza da parte della
Comunità internazionale nel fare dei passi: del resto anche in Libia abbiamo visto
che si sono mossi, ma le cose non si sono ancora risolte e vanno anzi per le lunghe.
(mg)