Assassinio in Costa d’Avorio
del capo ribelle che ha appoggiato Alassane Ouattara Ibrahim Coulibaly, bombardamento
della Nato sulle residenze di Gheddafi, eliminazione di Bin Laden: anche l’Africa
è chiamata ad assumere una posizione su queste morti, che coinvolgono l’opinione pubblica
mondiale nel suo complesso. Certamente, l’uso spregiudicato delle armi e della
violenza bellica, che caratterizza l’attualità internazionale, risulta in netto contrasto
con il clima di gioia e condivisione respirato dai circa 1,5 milioni di pellegrini
giunti a Roma per la Beatificazione di Giovanni Paolo II. Inoltre, sebbene si sia
da poco celebrata la Santa Pasqua, le televisioni non parlano più della morte e Resurrezione
di Gesù ma si occupano quotidianamente di questa serie di omicidi, acclamata da governanti
e governati di tutto il mondo. La notizia delle uccisioni è stata accolta, quasi ovunque,
con una paradossale euforia che sembra suggerire la necessità che si consumi una morte,
perché altrove possa rigenerarsi la vita. Viviamo, in un’epoca singolare, che si distingue
per forti contrasti e contraddizioni.
Come noto, nella cultura africana la
morte conserva un significato speciale, in determinati casi positivo e funzionale
al rigenerarsi di pacifiche relazioni sociali. Ad esempio, il decesso di una persona
cara ha il potere di rafforzare i legami familiari, favorire atteggiamenti di fraternità
in un clima di solenne consenso, promuovere la comunione e il dialogo anche con gli
elementi emarginati della famiglia. Le persone sono accomunate dalla condizione di
esseri umani umili e impotenti rispetto al destino, che può essere tragico. Anche
quando le società manifestano un atteggiamento di accettazione, rassegnazione e quasi
passività nei confronti della morte – è avvenuto sia dinanzi all’uccisione di singoli
individui, sia nel caso di eliminazioni sistematiche o addirittura di genocidi - la
parte «sana» delle popolazioni continua a considerare queste esperienze come un vero
e prioprio dramma, risultato di una pulsione autodistruttiva e mortale. Una cancrena
che – come è stato ben compreso e sottolineato dai Vescovi africani in occasione del
Sinodo del 2009 – si può curare solo con la ricerca della giustizia e della riconciliazione. Oggi
il continente è portato a riflettere sul senso di queste «piccole morti», associate
nell’immaginario collettivo ad icone della violenza politica, del terrorismo internazionale,
della corruzione dei governanti e però ugualmente indicative, in un certo senso, del
fallimento degli organi mondiali preposti alla risoluzione pacifica dei conflitti.
In qualunque luogo esse avvengano, e anche quando legittimate da giustificazioni morali
universalmente condivise (è il caso dell’eliminazione del figlio di Gheddafi, colpito
insieme a parte della sua famiglia dalle bombe della Nato) o consumate nell’indifferenza
della comunità internazionale (come si è osservato per Ibrahim Coulibaly della Costa
d’Avorio), tutte le esecuzioni sono riconducibili ad uno stesso interrogativo di base
sul senso della vita e sul valore assegnato all’essere umano, a livello universale. Alla
luce della consapevolezza che il pensiero è il frutto anche del vissuto personale
e del contesto nel quale l’individuo è inserito o si è formato, è corretto delegare
al giudizio degli uomini una valutazione circa il valore dell’esistenza? É legittimo
attribuire all’uomo l’eventuale decisione di interrompere una vita?
Offrendo
la sua stessa anima per mezzo della morte sulla croce, Gesù Cristo ha dato un senso
rinnovato alla vita. Proprio attraverso «questa croce», infatti, il trapasso cessa
di rappresentare la fine del mondo e diviene il passaggio ad una diversa dimensione,
l’accesso ad una nuova vita. L’insegnamento cristiano, nel quale milioni di africani
si riconoscono, stabilisce inoltre che la vita resta comunque sacra. Su di essa nessuno
ha il diritto di intervenire, dunque né gli assassinati di oggi né coloro che hanno
deciso della loro sorte. Anche l’eliminazione di personaggi che si
sono macchiati di crimini atroci contro l’umanità va quindi interpretata nella
sua dimensione di fede e come momento che mette in relazione l’uomo con il suo Dio,
in quanto per i cristiani essi restano degli esseri umani, sempre e in ogni caso Figli
di uno stesso Dio. Come ha ribadito il Direttore della Radio Vaticana, P. Federico
Lombardi, a proposito della morte di Bin Laden, dinanzi alla morte di un uomo un cristiano
non può mai essere contento. Egli deve riflettere sulle gravi responsabilità di ciascuno
nei confronti di Dio e degli uomini, adoperarsi affinché ogni avvenimento partecipi
al rafforzamento della pace e non costituisca, al contrario, un’occasione per aumentare
la violenza. «L’uomo ha avuto una grave responsabilità nella diffusione di sentimenti
di divisione e di odio contro i popoli».
Per varie ragioni, la morte di Bin
Laden - salutata quasi a livello universale da un coro di applausi - coinvolge in
modo speciale l’Africa. Nel continente Al Qaeda è stata protagonista di varie azioni,
dagli attentati antiamericani a Nairobi e a Das-es-Salaam, nell’agosto del 1998, alla
destabilizzazione totale della Somalia, dalla sua presenza in Sudan all’infiltrazione
di una «filiale» dell’organizzazione nel Maghreb. È significativa, al riguardo, una
riflessione contenuta nel libro “Filosofia senza Feticci” (di Filomeno Lopes, edito
da L’Harmattan nel 2004): «L’Africa è considerata la culla dell’umanità, la Madre
della vita. L’immagine che oggi invece si deve constatare soprattutto nel mondo afro-lusofono,
è quella di una Madre che è entrata nel cimetero per seppellire i suoi figli vittime
delle guerre fratricide e non riesce più ad uscire perché ogni volta che arriva alla
porta del cimitero trova altre madri che incessantemente arrivano con i loro figli
da seppelire. E lei per solidarietà deve di nuovo ritornare dentro e insieme piangere
i nuovi morti. Ecco l’assurdità : l’Africa – Madre della Vita – sembra aver trovato
dimora nel cimetero. E la riflessione filosofica africana odierna deve aiutare l’Africa
e gli africani a domandarsi : quando decideremo di far uscire le nostre mamme dal
cimetero ? Allo stesso tempo, trovare spiragli che le conducano ad una uscita definitiva».
Domenica
1 maggio 2011 migliaia di pellegrini sono giunti in Vaticano per rendere omaggio a
un morto, il Beato Giovanni Paolo II, che in ogni suo gesto aveva invocato il rispetto
assoluto e la celebrazione della vita umana: «Che la vita di Giovanni Paolo II
sia fonte di un impegno rinnovato al servizio di tutti gli uomini e dell’essere umano
nella sua integrità ! Lo prego di benedire gli sforzi di ciascuno, rivolti a costruire
una civiltà di amore nel rispetto della dignità di ciascuna persona, creata a immagine
di Dio», ha sollecitato Papa Benedetto XVI in tale occasione, salutando le delegazioni
ufficiali e i centinaia di pellegrini, molti venuti dall’Africa, per assistere alla
commuovente cerimonia. Il senso della morte e il valore della vita vanno ricercati,
allora, nella coscienza che l’esistenza di ciascuno deve essere rispettata e celebrata
come dono sacro e inviolabile, ovunque.
(A cura diAlbert Mianzoukouta,
del programma francese per l’Africa)