Il Papa al Nord-est: il Vangelo trasforma il mondo, la cultura dell'effimero oscura
la speranza
Ultima tappa di questa della visita pastorale del Papa ad Aquileia e Venezia è stato
l’incontro, ieri sera, con il mondo della cultura, dell’arte e dell’economia nella
Basilica della Salute nel capoluogo veneto. Nel suo discorso il Papa ha detto che
oggi Venezia, “città d’acqua” ammirata per le sue bellezze da tutto il mondo, è chiamata
ad una scelta: affidarsi ad una cultura “liquida”, inconsistente, fondata sul relativo
e l’effimero, o a una cultura che si fonda su basi solide e che “rinnova costantemente
la sua bellezza attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni
tra gli uomini e tra i popoli”. Quindi ha parlato della salute fisica e spirituale,
ricordando che “la piena salute dell’uomo … consiste nello stare in relazione profonda
con Dio”. Infine, ha spiegato che l’appellativo di Venezia, “Serenissima”, “ci parla
di una civiltà della pace” a cui si arriva per “la via della carità nella verità”.
Oggi – ha sottolineato – viviamo in un tempo “nel quale si è esaurita la forza delle
utopie ideologiche e non solo l’ottimismo è oscurato, ma anche la speranza è in crisi”.
Solo il Vangelo può riportare la vera pace, la vera gioia: “il Vangelo è la più grande
forza di trasformazione del mondo, ma non è un’utopia, né un’ideologia”: è piuttosto
una “via”, cioè “il modo di vivere che Cristo ha praticato per primo e che ci invita
a seguire”. Di seguito il testo del discorso:
Cari amici,
sono
lieto di salutarvi cordialmente, quali rappresentanti del mondo della cultura, dell’arte
e dell’economia di Venezia e del suo territorio. Vi ringrazio per la vostra presenza
e la vostra simpatia. Esprimo la mia riconoscenza al Patriarca e al Rettore che, a
nome dello Studium Generale Marcianum, si è fatto interprete dei sentimenti di tutti
voi e ha introdotto questo nostro incontro, l’ultimo della mia intensa visita, iniziata
ieri ad Aquileia. Vorrei lasciarvi alcuni spunti molto sintetici, che spero vi saranno
utili per la riflessione e per l’impegno comune. Questi spunti li traggo da tre parole
che sono metafore suggestive: tre parole legate a Venezia e, in particolare, al luogo
in cui ci troviamo: la prima parola è acqua; la seconda è Salute, la terza è Serenissima.
Cominciamo
dall’acqua – come appare logico per molti versi. L’acqua è simbolo ambivalente: di
vita, ma anche di morte; lo sanno bene le popolazioni colpite da alluvioni e maremoti.
Ma l’acqua è anzitutto elemento essenziale per la vita. Venezia è detta la “Città
d’acqua”. Anche per voi che vivete a Venezia questa condizione ha un duplice segno,
negativo e positivo: comporta molti disagi e, al tempo stesso, un fascino straordinario.
L’essere Venezia “città d’acqua” fa pensare ad un celebre sociologo contemporaneo,
che ha definito “liquida” la nostra società, e così la cultura europea: una cultura
“liquida”, per esprimere la sua “fluidità”, la sua poca stabilità o forse la sua assenza
di stabilità, la mutevolezza, l’inconsistenza che a volte sembra caratterizzarla.
E qui vorrei inserire la prima proposta: Venezia non come città “liquida” – nel senso
appena accennato –, ma come città “della vita e della bellezza”. Certo, è una scelta,
ma nella storia bisogna scegliere: l’uomo è libero di interpretare, di dare un senso
alla realtà, e proprio in questa libertà consiste la sua grande dignità. Nell’ambito
di una città, qualunque essa sia, anche le scelte di carattere amministrativo culturale
ed economico dipendono, in fondo, da questo orientamento fondamentale, che possiamo
chiamare “politico” nell’accezione più nobile e più alta del termine. Si tratta di
scegliere tra una città “liquida”, patria di una cultura che appare sempre più quella
del relativo e dell’effimero, e una città che rinnova costantemente la sua bellezza
attingendo dalle sorgenti benefiche dell’arte, del sapere, delle relazioni tra gli
uomini e tra i popoli.
Veniamo alla seconda parola: “Salute”. Ci troviamo
nel “Polo della Salute”: una realtà nuova, che ha però radici antiche. Qui, sulla
Punta della Dogana, sorge una delle chiese più celebri di Venezia, opera del Longhena,
edificata come voto alla Madonna per la liberazione dalla peste del 1630: Santa Maria
della Salute. Accanto ad essa, il celebre architetto costruì il Convento dei Somaschi,
diventato poi Seminario Patriarcale. “Unde origo, inde salus”, recita il motto inciso
al centro della rotonda maggiore della Basilica, espressione che indica come sia strettamente
legata alla Madre di Dio l’origine della Città di Venezia, fondata, secondo la tradizione,
il 25 marzo del 421, giorno dell’Annunciazione. E proprio per intercessione di Maria
venne la salute, la salvezza dalla peste. Ma riflettendo su questo motto possiamo
coglierne anche un significato ancora più profondo e più ampio. Dalla Vergine di Nazaret
ha avuto origine Colui che ci dona la “salute”. La “salute” è una realtà onnicomprensiva,
integrale: va dallo “stare bene” che ci permette di vivere serenamente una giornata
di studio e di lavoro, o di vacanza, fino alla salus animae, da cui dipende il nostro
destino eterno. Dio si prende cura di tutto ciò, senza escludere nulla. Si prende
cura della nostra salute in senso pieno. Lo dimostra Gesù nel Vangelo: Egli ha guarito
malati di ogni genere, ma ha anche liberato gli indemoniati, ha rimesso i peccati,
ha risuscitato i morti. Gesù ha rivelato che Dio ama la vita e vuole liberarla da
ogni negazione, fino a quella radicale che è il male spirituale, il peccato, radice
velenosa che inquina tutto. Per questo, Gesù stesso si può chiamare “Salute” dell’uomo:
Salus nostra Dominus Jesus. Gesù salva l’uomo ponendolo nuovamente nella relazione
salutare con il Padre nella grazia dello Spirito Santo; lo immerge in questa corrente
pura e vivificante che scioglie l’uomo dalle sue “paralisi” fisiche, psichiche e spirituali;
lo guarisce dalla durezza di cuore, dalla chiusura egocentrica e gli fa gustare la
possibilità di trovare veramente se stesso perdendosi per amore di Dio e del prossimo.
Unde origo, inde salus. Questo motto richiama molteplici riferimenti; mi limito a
ricordarne uno, la celebre espressione di sant’Ireneo: “Gloria Dei vivens homo, vita
autem hominis visio Dei” (Adv. haer. IV, 20, 7). Che si potrebbe parafrasare così:
gloria di Dio è la piena salute dell’uomo, e questa consiste nello stare in relazione
profonda con Dio. Possiamo dirlo anche con i termini cari al neo-beato Giovanni Paolo
II: l’uomo è la via della Chiesa, e il Redentore dell’uomo è Cristo.
Infine,
la terza parola: “Serenissima”, il nome della Repubblica Veneta. Un titolo davvero
stupendo, si direbbe utopico, rispetto alla realtà terrena, e tuttavia capace di suscitare
non solo memorie di glorie passate, ma anche ideali trainanti nella progettazione
dell’oggi e del domani, in questa grande regione. “Serenissima” in senso pieno è solamente
la Città celeste, la nuova Gerusalemme, che appare al termine della Bibbia, nell’Apocalisse,
come una visione meravigliosa (cfr Ap 21,1 – 22,5). Eppure il Cristianesimo concepisce
questa Città santa, completamente trasfigurata dalla gloria di Dio, come una meta
che muove i cuori degli uomini e spinge i loro passi, che anima l’impegno faticoso
e paziente per migliorare la città terrena. Bisogna sempre ricordare a questo proposito
le parole del Concilio Vaticano II: “Niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero
ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì
piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove
cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione
che adombra il mondo nuovo” (Cost. Gaudium et spes, 39). Noi ascoltiamo queste espressioni
in un tempo nel quale si è esaurita la forza delle utopie ideologiche e non solo l’ottimismo
è oscurato, ma anche la speranza è in crisi. Non dobbiamo allora dimenticare che i
Padri conciliari, che ci hanno lasciato questo insegnamento, avevano vissuto l’epoca
delle due guerre mondiali e dei totalitarismi. La loro prospettiva non era certo dettata
da un facile ottimismo, ma dalla fede cristiana, che anima la speranza al tempo stesso
grande e paziente, aperta sul futuro e attenta alle situazioni storiche. In questa
stessa prospettiva il nome “Serenissima” ci parla di una civiltà della pace, fondata
sul mutuo rispetto, sulla reciproca conoscenza, sulle relazioni di amicizia. Venezia
ha una lunga storia e un ricco patrimonio umano, spirituale e artistico per essere
capace anche oggi di offrire un prezioso contributo nell’aiutare gli uomini a credere
in un futuro migliore e ad impegnarsi a costruirlo. Ma per questo non deve avere paura
di un altro elemento emblematico, contenuto nello stemma di San Marco: il Vangelo.
Il Vangelo è la più grande forza di trasformazione del mondo, ma non è un’utopia,
né un’ideologia. Le prime generazioni cristiane lo chiamavano piuttosto la “via”,
cioè il modo di vivere che Cristo ha praticato per primo e che ci invita a seguire.
Alla città “serenissima” si giunge per questa via, che è la via della carità nella
verità, ben sapendo, come ci ricorda ancora il Concilio, che non bisogna “camminare
sulla strada della carità solamente nelle grandi cose, bensì e soprattutto nelle circostanze
ordinarie della vita” e che sull’esempio di Cristo “è necessario anche portare la
croce; quella che dalla carne e dal mondo viene messa sulle spalle di quanti cercano
la pace e la giustizia” (ivi, 38).
Ecco, cari amici, gli spunti di riflessione
che volevo condividere con voi. Per me è stata una gioia concludere la mia visita
in vostra compagnia. Ringrazio nuovamente il Cardinale Patriarca, l’Ausiliare e tutti
i collaboratori per la magnifica accoglienza. Saluto la Comunità ebraica di Venezia
- che ha antiche radici ed è una presenza importante nel tessuto cittadino - con il
suo Presidente, Prof. Amos Luzzatto. Un pensiero anche ai musulmani che vivono in
questa città. Da questo luogo così significativo rivolgo il mio cordiale saluto a
Venezia, alla Chiesa qui pellegrina e a tutte le Diocesi del Triveneto, lasciando,
come pegno del mio perenne ricordo, la Benedizione Apostolica.