Sentenza e condanne per la tragedia alla Thyssenkrupp
Sta suscitando reazioni di grande soddisfazione a livello politico e civile la sentenza
arrivata ieri sera dalla Corte d’assise di Torino sul rogo alla multinazionale dell’acciaio
– la Thyssenkrupp – che il 6 dicembre 2007 uccise sette operai. Sul banco degli imputati
sei responsabili. La condanna più grave per l’amministratore delegato: 16 anni e sei
mesi di carcere per omicidio volontario con dolo eventuale: sacrificò la sicurezza
per il profitto. Pene non inferiori a 10 anni per gli altri dirigenti, sanzioni per
l’azienda e risarcimenti alle parti civili. “Condanna incomprensibile”, afferma la
Thyssen; “lezione di civiltà” per sindacati e familiari delle vittime. Il ministro
del lavoro, Sacconi, sollecita ora più prevenzione e collaborazione con le aziende,
mentre di sensibilità nei riguardi della sicurezza e del valore della vita parla mons.
Angelo Casile, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e del lavoro
della Conferenza episcopale italiana. Lo ha intervistato Gabriella Ceraso:
R. – E’ una
sentenza e quindi anzitutto va rispettata, farà giurisprudenza. L’altro aspetto è
che senz’altro assume rilevanza appunto per il tema della sicurezza, in quanto prevale
l’attenzione nei riguardi del lavoratore in quanto persona, e non solo come prestatore
d’opera. Ovviamente, c’è tutta l’attenzione anche nei riguardi delle persone che hanno
subito questa tragedia.
D. – E’ come dire: la vita di un lavoratore
non si può trasformare in profitto…
R. – Benedetto XVI ci ricorda sempre
che ogni lavoratore, ogni persona che lavora, è un creatore, e per questo ogni persona
che lavora dovrebbe essere messa in condizione di dare il meglio di se stessa. Quindi,
è altrettanto importante anche che l’ambiente in cui la persona lavora sia un ambiente
sicuro.
Ma perché si parla di una sentenza “storica”? Gabriella Ceraso
ne ha parlato con il consulente legale dell’Anmil, Mauro Dalla Chiesa:
R.
– E’ una sentenza storica perché ha valorizzato un fatto in maniera diversa da tutti
i precedenti giurisprudenziali in materia. E’ la prima volta che un imprenditore viene
condannato per un infortunio sul lavoro a titolo di “omicidio volontario”. Questa
sentenza crea una cesura, una frattura tra quello che c’è stato prima e quello che
succederà dopo. Ma non è una sentenza innovativa dal punto di vista tecnico, perché
l’impianto del Codice penale ha consentito comunque, senza nessuna particolare modifica,
di valorizzare norme già esistenti. Il Collegio ha potuto considerare accertato che
la dirigenza della Thyssenkrupp abbia volontariamente omesso di modificare la linea
antincendio di quello stabilimento. Il loro calcolo è stato riconosciuto equivalente
alla causazione di un omicidio con dolo, cioè con volontà.
D. – E’ una
sentenza, si è detto, che farà scuola. In che senso, e cosa dovremo aspettarci d’ora
in poi?
R. – Diciamo che questa è stata una scelta coraggiosa della
Procura torinese, di percorrere questa strada che è molto più difficile rispetto alla
contestazione di un omicidio colposo, e quindi incoraggerà altre Procure a poter contestare
anche l’omicidio volontario con conseguenze sanzionatorie diverse. In altre parole,
con una condanna a 16 anni, in carcere bisogna andarci. Con una condanna a due-tre
anni, in carcere, in Italia, non ci si va.
D. – Dal punto di vista degli
imprenditori, secondo lei, questo farà riflettere?
R. – Dovrebbe significare
qualcosa. Il problema, però, è vedere come si muoveranno tutte le Procure d’Italia,
perché laddove non vi siano indagini pressanti, è chiaro che questo monito possa essere
meno sentito.
D. – Invece, per chi tutela i lavoratori come l’Anmil,
e per i lavoratori stessi…
R. - Questo crea un clima di fiducia nella
giustizia, una risposta alle esigenze dei familiari, delle vittime, degli orfani,
delle vedove dei caduti sul lavoro. E’ una risposta adeguata al vulnus che hanno subito,
l’offesa massima: la perdita della vita di un familiare. (gf)