La crisi che infiamma il Nordafrica dimostra come la Comunità Internazionale sia rimasta
prigioniera di un concetto ottocentesco riguardo all’Africa come soggetto politico
e ruolo geostrategico, vista come una regione che costituisce una semplice appendice
della storia mondiale, un semplice paragrafo della geopolitica mondiale. I media internazionali
hanno parlato soprattutto di “rivoluzioni arabe”, associando da subito alle rivolte
il pericolo di una diffusione del fondamentalismo islamico. Hanno travisato la realtà
dei Paesi in questione, che sono innanzitutto africani, fondatori e membri a pieno
titolo dell’Unione Africana (UA, istituzione che rappresenta il continente e riconosciuta
nell’organigramma della Comunità Internazionale). Inoltre, è bene ricordare che Algeria,
Libia, Marocco e Tunisia non sono gli unici paesi arabi all’interno del continente
e che, d’altra parte, altri Stati africani stanno vivendo importanti crisi socio-politiche,
delle quali però non si parla (Mauritania, Mozambico, Senegal, Sudafrica, ecc.). Tale
rappresentazione è all’origine del contrasto emerso, nella gestione della crisi libica,
tra l’UA (della quale la Libia è membro) e la cosiddetta “coalizione dei volenterosi”,
costituita principalmente da alcuni paesi europei e dagli Stati Uniti. Sebbene la
stessa Carta dell’ONU preveda il ruolo prioritario delle organizzazioni regionali
nella gestione delle questioni locali, la strategia fino a oggi adottata dagli euro-nordamericani
non prevede il coinvolgimento dell’UA con un ruolo di guida nel processo d’interposizione
tra le parti in conflitto. Sono così i fondamenti stessi del pensiero geopolitico
classico che spingono le potenze occidentali a ignorare il ruolo dell’Unione e dei
paesi africani, nella ricerca di una soluzione condivisa alle crisi. L’approccio attuale
dell’Europa continua a considerare il Nordafrica come “altro, estraneo” rispetto al
resto del continente, per collocarlo più facilmente all’interno di una strategia mediorientale
e includerlo in quello che oggi chiamano comunemente “Spazio Euromeditarraneo”. Una
visione che non tiene conto del significato dell’Africa a Sud del Sahara, investita
da analoghe mobilitazioni di piazza, e che proietta un’immagine di “frammentarietà”
del continente, non molto attenta al benessere di lungo periodo delle popolazioni
africane ma certamente congeniale agli interessi strategici e alla sicurezza del mondo
occidentale: da una parte l’esigenza di garantire gli equilibri geopolitici nel Medio
Oriente, dall’altra l’accesso alle risorse energetiche locali.
Ma come avrebbe
l’UA gestito la rivoluzione nordafricana, e in modo particolare quella libica? Nel
progetto di “rinascimento continentale”, il progetto Nepad, lanciato all’inizio del
nuovo millennio dai Capi di Stato africani, tra le riforme necessarie per lo sviluppo
politico del continente sono indicate l’edificazione della pace, la riconciliazione
nazionale, la costruzione di Stati di Diritto, attraverso processi che portino ad
un pluralismo istituzionale e a libere elezioni popolari. La Libia è un paese importante
per l’attuazione del programma dell’UA nonché per l’equilibrio geostrategico ed economico
dell’intero continente. In linea con le direttive del Nepad, i vertici dell’Unione
lavorano da tempo in favore di un passaggio pacifico ad un nuovo regime nello Stato
(la predisposizione alla ricerca di soluzioni concertate piuttosto che l’uso della
violenza è, d’altra parte, sancita nello Statuto stesso dell’Unione). Da anni era
aperto un tavolo di dialogo informale, sotto l’egida dell’UA, finalizzato proprio
alla pacificazione interna tra i diversi gruppi che compongono l’insieme della società
libica, al fine di rispondere alle legittime aspirazioni del popolo. Inoltre, a seguito
dell’esplosione delle violenze nel febbraio scorso ma prima della decisione ONU riguardo
alla no-fly zone e all’intervento armato, l’UA aveva avviato negoziati per un cessate
il fuoco immediato tra il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di Benghazi e le
autorità di Tripoli. Una missione di cinque Capi di Stato africani era inoltre prevista
dalla road map dell’Organizzazione, proprio allo scopo di guidare un tavolo di concertazione
tra Gheddafi e gli insorti. Non sorprende, dunque, che l’intervento militare abbia
raccolto la condanna esplicita di quasi tutti i Capi di Stato africani (compresi i
più critici nei confronti del regime di Gheddafi) e delle popolazioni, che hanno dato
luogo a manifestazioni di protesta a Dakar e in altre città africane. In varie
occasioni il Presidente della Commissione dell’UA, Jean Ping, ha sottolineato che
il dialogo tra le parti è fondamentale, al fine di ristabilire la pace e preservare
l’integrità territoriale della Libia. L’UA ha inoltre insistito sull’importanza di
mantenere l’embargo sulle armi, di smorzare l’odio e creare un nuovo patto politico,
culturale e religioso nella popolazione. Il tessuto sociale necessario alla riconciliazione
nazionale e all’edificazione di uno Stato di Diritto risulta invece oggi compromesso
in Libia, a causa dell’esplosione della violenza interna e della risposta inadeguata
data da Europa e Stati Uniti. D’altra parte, l’uso della violenza politica pone problemi
anche dal punto di vista del riconoscimento dell’eventuale nuova coalizione politica
alla guida della Libia dal momento che – secondo Statuto - l’UA non può riconoscere
un Governo insediatosi per mezzo delle armi.
Purtroppo, le visioni “antiche”
che viziano la percezione del mondo occidentale della realtà internazionale non consentono
di intraprendere un partenariato più sereno con il continente africano nella sua globalità.
Una prospettiva di vera cooperazione deve tener presenti le evoluzioni delle politiche
e delle società che, per essere al passo con i tempi, devono necessariamente “cambiare
insieme al mondo”. Da qui la necessità di uno sguardo dinamico, attento a ciò che
si muove all’interno delle strutture sociali, alle modalità con le quali la vita degli
africani si radica nella congiuntura geopolitica continentale e internazionale odierna.
Una lettura più coerente con la realtà locale – rispetto alla “narrazione storica”
suggerita dai principali canali della comunicazione politica - avrebbe consentito
di accorgersi che il comportamento di opposizione costituisce da anni l’elemento
fondamentale della vita sociale in tutto il continente africano. É in atto un
risveglio popolare che fa parte di una generalizzata “cultura del disaccordo”, emersa
in concomitanza e grazie all’avvento del cosiddetto pluralismo politico. Oggi uomini
e donne alzano la voce e affrontano a viso aperto la violenza sistematica dei poteri
dominanti, coscienti della necessità della lotta contro la miseria spaventosa dell’era
contemporanea, dominata dal “Vangelo del Mercato” e nella quale il denaro acquista
sempre più un valore assoluto. Intere popolazioni, private dei diritti politici, rivelano
tutto il loro potenziale di protesta collettiva, resistendo alla tentazione di arrendersi
davanti alla repressione dei cosiddetti “regimi di ferro”. L’Africa è da tempo un
continente in fermento, che rischia di implodere qualora non si dia una risposta globale
adeguata alle domande ben precise - e per niente ideologiche – delle popolazioni in
continuo tumulto. Dalle rivoluzioni ideologiche siamo passati alle rivolte popolari,
ispirate da rivendicazioni pratiche e legittime. Le “piazze” di oggi non cercano la
presa del potere; chiedono piuttosto pane, medicinali, giustizia sociale, lavoro,
democrazia... Sono comportamenti sociali che possono essere compresi solo dando giusto
riconoscimento, seppure in un’ottica di visione complessiva del continente, al “bricolage”
e alla pluralità di esperienze che caratterizzano le società africane. Con gli interventi
delle potenze europee, invece, queste agitazioni sono state in un certo senso “tenute
volutamente al di fuori” dalla regione nordafricana e considerate come una realtà
a parte, a tutela di un concetto di “sicurezza” del tutto incurante delle aspirazioni
profonde alla pace, allo sviluppo e alla libertà dei popoli africani.
Possiamo
quindi concludere che il Nordafrica, eccezione fatta per l’Algeria, è semplicemente
attraversato con venti anni di ritardo, rispetto ad altre regioni del continente,
da questo vento di liberalizzazione dello spazio politico-sociale. Il fattore
innovativo degli ultimi mesi non è, dunque, nella mobilitazione delle piazze, ma nella
sorpresa che sembra aver colto sia gli Usa sia l’Europa, nel caso della Tunisia, e
nella decisione di un intervento diretto e non concertato con l’Unione Africana, per
quanto riguarda la Libia. Nella sensibilità africana, infine, la soluzione assegnata
dagli alleati alla crisi libica (contro un leader che aveva dimostrato una posizione
in politica estera marcatamente autonoma rispetto alla volontà delle potenze occidentali)
è associata al timore per il ritorno del fantasma di “Patrice Lumumba”, leader della
Repubblica Democratica del Congo degli anni Cinquanta, vittima e simbolo di quella
strategia dell’eliminazione sistematica di tutti i politici che hanno ostentato indipendenza
rispetto agli interessi delle potenze esterne. Mai come ora, gran parte delle classi
dirigenti africane si domandano se in un regime di partenariato democratico fra Stati
sia consentito anche ai leaders africani godere di una certa “indipendenza intellettuale”
- come l’ha definita uno dei più aspri critici di Gheddafi, il Presidente dell’Uganda
Yoweri Musseveni - senza per questo subire la stessa sorte di Lumumba, Cabral, Thomas
Sankara. E la lista è lunga.
(A cura di Filomeno Lopes, del programma portoghese
per l'Africa).