Costa d'Avorio: Gbagbo resiste. Il cardinale Turkson: chi ha perso le elezioni si
faccia da parte
Calma carica di tensione oggi ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove prosegue l’assedio
al palazzo presidenziale dov’è rinchiuso il presidente uscente Gbagbo. Il servizio
di Sergio Centofanti:
Le forze
di Gbagbo resistono all’assedio e rispondono con le armi pesanti. Hanno anche attaccato
la residenza dell'ambasciatore francese con alcuni razzi. Pronta la rappresaglia dei
soldati francesi della forza ''Licorne'', presenti nella città, che hanno distrutto
un veicolo blindato delle forze pro-Gbagbo. Da parte sua, Human Rights Watch accusa
sia le milizie del presidente uscente che quelle del presidente eletto, Ouattara,
di aver compiuto massacri indiscriminati contro la popolazione civile: centinaia di
persone, compresi donne e bambini, sarebbero stati uccisi, interi villaggi bruciati.
Tutto questo mentre continua il dramma umanitario di centinaia di migliaia di sfollati
in fuga dalle violenze: l’Onu ha lanciato un appello per l’apertura di corridoi umanitari.
Ieri, intanto, è rientrato a Roma il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson,
presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, che il Papa aveva inviato in
Costa d'Avorio per una missione di ''pace'' e ''riconciliazione'': purtroppo non è
riuscito a raggiungere il Paese. Ascoltiamo la sua testimonianza:
R.
- Nessun aereo poteva entrare in Costa d’Avorio e il nunzio che doveva accogliermi
non poteva uscire perché la sua residenza è molto vicina a quella presidenziale. Quindi,
ho aspettato un po’ in Ghana, ad Accra, sperando che la situazione cambiasse un po’
ma non ho avuto buona fortuna. Ho anche cercato di avere assistenza dall’Onu perché
l’Onu faceva voli speciali da Accra alla Costa d’Avorio ma, come ho potuto verificare,
l’Onu non voleva correre questo rischio di portare una persona che non facesse parte
del suo staff in situazioni molto delicate e pericolose come queste. C’era il coprifuoco
e quindi non è stato possibile entrare in Costa d’Avorio perché l’aeroporto è stato
chiuso. Ho parlato telefonicamente con il nunzio e con il presidente della Conferenza
episcopale ivoriana e così ci siamo confrontati su quello che sta accadendo.
D.
- Quale messaggio voleva portare in Costa d’Avorio?
R. - Volevo portare
il messaggio del Papa alla Conferenza episcopale ivoriana ma non ho potuto consegnare
il messaggio e il contenuto rimane riservato.
D. - Gli scontri non sono
finiti, ci sono centinaia di migliaia di sfollati e profughi. Che cosa può fare la
comunità internazionale?
R. - I profughi si dirigono soprattutto verso
la Liberia e verso il Ghana. Non ci sono tanti profughi verso il nord, cioè verso
il Burkina Faso. Per quanto riguarda i profughi in Ghana, credo che il governo ghanese
si stia già prendendo cura di quelli che si trovano lì, secondo le proprie capacità.
In Liberia, invece, credo che ci sia qualche problema perché la Liberia è appena uscita
da una guerra e sta ricostruendo il Paese e non ha la stessa capacità del Ghana di
accogliere tutti questi profughi. Forse lì la comunità internazionale avrà bisogno
di concentrare la propria attenzione cercando di vedere quello che può fare.
D.
- Qual è l’impegno della Chiesa in Costa d’Avorio, qual è il suo ruolo in questo scontro?
R.
- Come in tutte le situazioni simili, la Conferenza episcopale diventa un punto di
riferimento importante nel Paese e tra la popolazione anche se non sono tutti cattolici.
L’impegno è quello di cercare di evitare che il conflitto si estenda, di promuovere
il dialogo tra le parti, di incoraggiare la gente e di portare alla popolazione sollievo,
assistenza e la solidarietà della Chiesa universale.
D. - Le sue speranze
per questa crisi?
R. - La mia speranza è che questa crisi finisca il
più presto possibile. Auspico che chi ha perso le elezioni riesca ad accettare la
volontà che la popolazione ha espresso tramite il voto e se non è d’accordo aspetti
democraticamente le prossime elezioni. Chi ha perso deve accettare il risultato, si
deve mettere da parte e aspettare la prossima tornata elettorale per ottenere consensi
sul proprio piano di sviluppo per il Paese. Non si può far morire la gente per divisioni
etniche o tribali o addirittura per seguire sedicenti “profezie” pronunciate da alcuni
pastori, che definiscono qualcuno come “unto del Signore” perché sia alla guida del
Paese. La mia speranza è che cessi questo spargimento di sangue e che si possa tornare
a dialogare e a discutere. Bisogna cercare di convincere chi ha perso le elezioni
ad accettare il risultato. (fb)