Siria: incendiata sede del partito Baath, 150 morti a Daraa. Liberati 200 prigionieri
politici
Sale la protesta in Siria: migliaia di persone hanno dato alle fiamme la sede del
Partito governativo Baath a Tafas, presso Daraa, teatro della dura repressione contro
i manifestanti e che avrebbe causato circa 150 morti. Le autorità di Damasco hanno
liberato oltre 200 prigionieri politici. Lo fa sapere l’Osservatorio per i diritti
umani in Siria mentre da fonte governativa viene la rassicurazione che c’è calma nel
Paese. Tuttavia, siti web denunciano almeno 25 morti e parlano di dimostrazioni e
scontri in diverse città. Il servizio di Fausta Speranza:
Oltre 200
persone che avevano firmato una domanda di libertà, ieri sera, hanno potuto lasciare
la prigione di Sednaya. Si tratta per la maggior parte di islamici. L’Osservatorio
per i diritti umani lo comunica senza ulteriori spiegazioni. La notizia giunge oggi
dopo che ieri si sono moltiplicati sul web i messaggi e i filmati relativi a scontri
in diverse città compresa la blindatissima capitale Damasco. La tv di Stato manda
in onda le immagini delle bandiere di quanti inneggiano al presidente Assad ma i video
amatoriali pubblicati sulla Rete raccontano che anche nella capitale ci sono stati
disordini con tre morti. La regione di Hawran, di cui Daraa, epicentro delle proteste
è il capoluogo, è stata definita “la porta della liberazione”. E infatti in tutta
l’area il dispiegamento di militari dell'esercito è ingente. Ma, cortei anti-regime
si sono avuti anche in maniera minore in quasi tutte le città della Siria: da Homs
a Hama al centro della striscia di territorio fertile che da Damasco conduce fino
ad Aleppo, e poi a Latakia, porto simbolo del potere dei clan alawiti alleati della
famiglia Assad. Ad Aleppo il tentativo di manifestare a partire dalla Grande moschea
è stato represso a manganellate all'interno della sala di preghiera: un video su Youtube
conferma quanto raccontato da testimoni. Perfino a Raqqa nell'estremo nord e a Qamishli,
nel nord-est curdo ai confini con Turchia e Iraq, centinaia di persone sono scese
in strada. Resta da dire che un appello alla rivolta popolare in tutte le province
siriane è stato lanciato per oggi su Facebook.
Ma quali le cause del profondo
malcontento in Siria? Linda Giannattasio ha chiesto un’analisi a Marcella
Emiliani, docente di sviluppo politico del Medio Oriente all’Università di Bologna:
R. – La Siria
è un Paese che, fin dal 1963, ha mantenuto lo stato d’emergenza, quindi è uno Stato
poliziesco a tutti gli effetti. Ieri è stato promesso di togliere questo stato d’emergenza,
però bisognerà vedere i tempi e i modi in cui verrà tolto. Per il resto, è un Paese
che ha anche forti problemi dal punto di vista economico, è un Paese che non ha grandi
risorse. La cosa più importante, però, è che fin da quando è salito al potere, nel
2000, alla morte di suo padre - Hafez al Assad -, il giovane presidente Bashar al
Assad ha avviato un processo di liberalizzazione economica che ha messo in moto dei
fenomeni che sono poi quelli che hanno fatto arrabbiare la popolazione. E’ una liberalizzazione
che ha aggravato il divario tra ricchi e poveri. Ad approfittare delle nuove possibilità
economiche è stato, soprattutto, tutto l'entourage della famiglia al Assad e della
minoranza che con gli Assad è andata al potere, che è la minoranza alawita. Questo
è il vero punto debole della delegittimazione degli Assad al potere: la stragrande
maggioranza della popolazione è sunnita; gli alawiti, sono una setta, quasi un’etnia,
sciita, e questo la maggioranza della popolazione non lo dimentica.
D.
– Si tratta quindi, secondo lei, anche di uno scontro confessionale?
R.
– Certamente questo dominio della famiglia e della minoranza non è gradito alla popolazione,
però il tutto non ha ancora i connotati di uno scontro confessionale. Qui quello che
si sta facendo è protestare contro un regime che non è riuscito, con le riforme messe
in moto dal 2000 ad oggi, a garantire alla popolazione un minimo di benessere. Certo,
se continua la repressione a suon di decine di morti al giorno e se non verranno avviate
in tempi brevi delle riforme, allora c’è anche il pericolo che il tutto prenda una
deriva di tipo confessionale.
D. – Che ruolo ha, nella situazione attuale,
anche l’esercito nel Paese?
R. – Va detto che, siccome dal 1970 ad oggi
la famiglia Assad ha badato a mettere alla testa dello Stato e soprattutto dell’esercito
gli alawiti, non possiamo aspettarci che, d’improvviso, l’esercito si schieri al fianco
della popolazione, perché oggi, a meno che non si spacchi lo stesso esercito – com’è
successo altre volte nella storia della Siria -, quest’ultimo sta dalla parte del
presidente.
D. – Quale può essere oggi, secondo lei, il ruolo della
comunità internazionale nel caso-Siria?
R. – Il caso-Siria è un caso
molto delicato, perché la Siria è il miglior alleato di area del Medio Oriente e dell’Iran,
anzi, l’unico. Dunque, lo scopo dell’amministrazione Obama è quello di staccare la
Siria dall’Iran, cioè portare la Siria dalla propria parte e, per questo, sono state
fatte precise pre-offerte a Bashar al-Assad. Sul piatto dei negoziati con la Siria
c’è il Golan e c’è anche una buona dose di aiuti economici. Non dimentichiamo poi
un ultimo tassello, che è rappresentato dal Libano. La Siria soprattutto – ma anche
il suo alleato Iran – ha il controllo del Libano. Quindi, la minaccia di ri-destabilizzare
il Libano potrebbe essere un’altra di quelle minacce che Bashar al Assad può agitare
qualora la comunità internazionale prendesse provvedimenti pesanti nei suoi confronti.
(vv)