Giornata di preghiera per i missionari martiri nel ricordo di Oscar Romero
Si celebra oggi la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri, sul tema"Restare nella speranza". La Chiesa si raccoglie intorno a quanti hanno sacrificato
la propria vita per testimoniare il Vangelo e ricorda in particolare gli operatori
pastorali uccisi nel 2010. La ricorrenza cade nell’anniversario dell’uccisione dell’arcivescovo
di San Salvador, mons. Oscar Arnulfo Romero, avvenuta il 24 marzo del 1980. Tante
le celebrazioni e iniziative nel Paese centroamericano per celebrare il 31.mo della
morte del presule. Anche il presidente Usa, Barack Obama, ha reso omaggio alla tomba
di mons. Romero, a conclusione del suo viaggio nel Salvador. In onore del vescovo
Romero, l'anno scorso, l'Onu ha proclamato il 24 marzo "Giornata Internazionale per
il diritto alla verità". Il servizio di Davide Dionisi.
Quel 24 marzo
del 1980 il sangue di Cristo e il sangue di Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador,
furono tutt’uno. La raffica omicida colpì il suo cuore, nel momento in cui elevava
il calice consacrato. Assassinato a 63 anni, durante la celebrazione della Messa nella
cappella di un ospedale alla periferia della capitale, qualcuno lo ricorda ancora
oggi come presule scomodo. Ma scomodo a chi? Non davvero ai poveri e agli emarginati,
non davvero a quanti, in quel Paese martoriato, speravano che la Croce di Cristo diventasse
segno di speranza, certezza di nuova e maggiore dignità. Ma che cosa rappresenta oggi
mons. Romero per la Chiesa e per il popolo salvadoregno? Lo abbiamo chiesto a Roberto
Morozzo Della Rocca, esponente della Comunità di Sant’Egidio e biografo
del compianto presule:
R. - Direi che Romero è innanzitutto un vescovo
martire. Un vescovo ed un martire. Un vescovo perché era la sua identità principale.
La sua caratteristica era quella di essere un pastore: lui non era un teologo, non
era un uomo politico, non era una figura legata ad attività secolari. E’ un martire
perché è morto sull’altare ed è stato ucciso perché difendeva i poveri in base ad
una scelta di fede.
D. - Che cosa rappresenta, invece, per il popolo
salvadoregno?
R. - Rappresenta il salvadoregno più famoso della storia
di El Salvador, forse l’unico che ha raggiunto una fama mondiale sia in vita, sia
oggi, a 31 anni dalla morte. La sua fama non ha fatto che crescere, anzi: è quasi
diventata un mito per la realtà storica che lui è stato ed ha rappresentato. Per il
popolo salvadoregno, la sua memoria è una memoria cara ed affettuosa di una persona
che voleva il bene comune, che voleva il bene del popolo, che difendeva i deboli,
che voleva la pace per il Paese. Ed ha dato la vita per questo.
D. -
Quale eredità ha lasciato mons. Romero?
R. - L’eredità di un uomo buono,
che amava gli altri, che cercava la giustizia e la pace. Quindi, l’eredità di una
persona che non ha vissuto per sé ma che ha vissuto per gli altri, per il prossimo,
in particolare per i poveri e per le persone più sfavorite. Direi che ormai il suo
è un ricordo certamente diverso a seconda delle generazioni: le generazioni più anziane
lo hanno conosciuto ed hanno una memoria molto viva, mentre i più giovani ne hanno,
forse, un ricordo in senso un po’ mitico, perché la sua figura è stata tirata di qua
e di là, un po’ strattonata, è stata anche un po’ strumentalizzata dalla politica,
in senso positivo dalla sinistra ed in senso negativo dalle destre. Si tratta perciò
di fare un lavoro di ricostruzione della memoria storica, un lavoro più preciso, più
esatto, per riconsegnare mons. Romero alla sua realtà storica e non soltanto al mito.
D.
- Secondo lei, il sacrificio di mons. Romero e di chi lo ha seguito è stato vano?
E fino a che punto è stata fatta giustizia di questi crimini?
R. - Non
è stato vano, perché innanzitutto la sua morte, il suo sacrificio ha avuto una grande
eco mondiale ed ha posto la vicenda del suo Paese - del piccolo Salvador, che è grande
come il Lazio e che all’epoca contava cinque milioni di abitanti - al centro dell’attenzione
mondiale. Forse anche gli sforzi che per anni sono stati fatti per uscire dalla guerra
civile - che è durata fino al 1992 -, sono stati fatti da tante persone nel nome e
nel ricordo di mons. Romero. Il sacrificio dei suoi amici, innanzitutto i sei preti
uccisi nei tre anni del suo arcivescovado ed i tanti catechisti uccisi nelle campagne
dalle Forze paramilitari, dalla repressione militare, magari soltanto perché possedevano
una Bibbia; è stato un sacrificio che ha seminato un senso religioso, un senso della
passione cristiana in mezzo alla popolazione del Salvador. Credo che per tutto questo
vi sia, nelle famiglie, una memoria non solo pubblica ma anche privata per le tante
vittime di questa vicenda e della guerra civile che l’ha seguita. Questo ha sempre
chiesto ai salvadoregni una forza di approfondimento interiore, di riconciliazione.
(vv)