2011-03-24 16:04:50

Giornata di preghiera per i missionari martiri nel ricordo di Oscar Romero


Si celebra oggi la Giornata di preghiera e digiuno per i missionari martiri, sul tema "Restare nella speranza". La Chiesa si raccoglie intorno a quanti hanno sacrificato la propria vita per testimoniare il Vangelo e ricorda in particolare gli operatori pastorali uccisi nel 2010. La ricorrenza cade nell’anniversario dell’uccisione dell’arcivescovo di San Salvador, mons. Oscar Arnulfo Romero, avvenuta il 24 marzo del 1980. Tante le celebrazioni e iniziative nel Paese centroamericano per celebrare il 31.mo della morte del presule. Anche il presidente Usa, Barack Obama, ha reso omaggio alla tomba di mons. Romero, a conclusione del suo viaggio nel Salvador. In onore del vescovo Romero, l'anno scorso, l'Onu ha proclamato il 24 marzo "Giornata Internazionale per il diritto alla verità". Il servizio di Davide Dionisi.RealAudioMP3

Quel 24 marzo del 1980 il sangue di Cristo e il sangue di Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, furono tutt’uno. La raffica omicida colpì il suo cuore, nel momento in cui elevava il calice consacrato. Assassinato a 63 anni, durante la celebrazione della Messa nella cappella di un ospedale alla periferia della capitale, qualcuno lo ricorda ancora oggi come presule scomodo. Ma scomodo a chi? Non davvero ai poveri e agli emarginati, non davvero a quanti, in quel Paese martoriato, speravano che la Croce di Cristo diventasse segno di speranza, certezza di nuova e maggiore dignità. Ma che cosa rappresenta oggi mons. Romero per la Chiesa e per il popolo salvadoregno? Lo abbiamo chiesto a Roberto Morozzo Della Rocca, esponente della Comunità di Sant’Egidio e biografo del compianto presule:

R. - Direi che Romero è innanzitutto un vescovo martire. Un vescovo ed un martire. Un vescovo perché era la sua identità principale. La sua caratteristica era quella di essere un pastore: lui non era un teologo, non era un uomo politico, non era una figura legata ad attività secolari. E’ un martire perché è morto sull’altare ed è stato ucciso perché difendeva i poveri in base ad una scelta di fede.

D. - Che cosa rappresenta, invece, per il popolo salvadoregno?

R. - Rappresenta il salvadoregno più famoso della storia di El Salvador, forse l’unico che ha raggiunto una fama mondiale sia in vita, sia oggi, a 31 anni dalla morte. La sua fama non ha fatto che crescere, anzi: è quasi diventata un mito per la realtà storica che lui è stato ed ha rappresentato. Per il popolo salvadoregno, la sua memoria è una memoria cara ed affettuosa di una persona che voleva il bene comune, che voleva il bene del popolo, che difendeva i deboli, che voleva la pace per il Paese. Ed ha dato la vita per questo.

D. - Quale eredità ha lasciato mons. Romero?

R. - L’eredità di un uomo buono, che amava gli altri, che cercava la giustizia e la pace. Quindi, l’eredità di una persona che non ha vissuto per sé ma che ha vissuto per gli altri, per il prossimo, in particolare per i poveri e per le persone più sfavorite. Direi che ormai il suo è un ricordo certamente diverso a seconda delle generazioni: le generazioni più anziane lo hanno conosciuto ed hanno una memoria molto viva, mentre i più giovani ne hanno, forse, un ricordo in senso un po’ mitico, perché la sua figura è stata tirata di qua e di là, un po’ strattonata, è stata anche un po’ strumentalizzata dalla politica, in senso positivo dalla sinistra ed in senso negativo dalle destre. Si tratta perciò di fare un lavoro di ricostruzione della memoria storica, un lavoro più preciso, più esatto, per riconsegnare mons. Romero alla sua realtà storica e non soltanto al mito.

D. - Secondo lei, il sacrificio di mons. Romero e di chi lo ha seguito è stato vano? E fino a che punto è stata fatta giustizia di questi crimini?

R. - Non è stato vano, perché innanzitutto la sua morte, il suo sacrificio ha avuto una grande eco mondiale ed ha posto la vicenda del suo Paese - del piccolo Salvador, che è grande come il Lazio e che all’epoca contava cinque milioni di abitanti - al centro dell’attenzione mondiale. Forse anche gli sforzi che per anni sono stati fatti per uscire dalla guerra civile - che è durata fino al 1992 -, sono stati fatti da tante persone nel nome e nel ricordo di mons. Romero. Il sacrificio dei suoi amici, innanzitutto i sei preti uccisi nei tre anni del suo arcivescovado ed i tanti catechisti uccisi nelle campagne dalle Forze paramilitari, dalla repressione militare, magari soltanto perché possedevano una Bibbia; è stato un sacrificio che ha seminato un senso religioso, un senso della passione cristiana in mezzo alla popolazione del Salvador. Credo che per tutto questo vi sia, nelle famiglie, una memoria non solo pubblica ma anche privata per le tante vittime di questa vicenda e della guerra civile che l’ha seguita. Questo ha sempre chiesto ai salvadoregni una forza di approfondimento interiore, di riconciliazione. (vv)







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