Libia: a Misurata nuovi attacchi delle forze di Gheddafi e raid della coalizione.
Parigi: alla Nato ruolo tecnico
In Libia, proseguono i bombardamenti della coalizione internazionale, ma anche gli
scontri tra i ribelli e le truppe fedeli a Gheddafi. A Misurata nelle ultime ore sono
morte 16 persone, tra cui 5 bambini. Intanto dopo l’accordo raggiunto tra Stati Uniti,
Gra Bretagna e Francia, la Nato fa sapere di essere pronta ad agire quando verrà richiesto.
Ma Parigi precisa: all’Allenaza Atlantica solo un ruolo tecnico, non la guida politica.
Intanto all’Italia è stato affidato il comando della componente marittima della missione
Nato per il rispetto dell’embargo delle armi. Cecilia Seppia 00:01:25:80
In Libia si continua dunque a combattere e a Tripoli, bersaglio in questi
giorni di diversi raid notturni, si vive oggi una situazione di calma surreale. E'
quanto sottolinea Cristiano Tinazzi, giornalista freelance raggiunto telefonicamente
nella capitale libica da Amedeo Lomonaco:
R. – Come
tutti gli altri giorni, dopo i fuochi della contraerea e i bombardamenti, al mattino
la città si risveglia tranquillamente, con un traffico regolare, i negozi aperti e
i mercati pieni di gente. I bombardamenti che vengono effettuati, comunque, a parte
la caserma di Bab al Aziziya che si trova in città, sono in periferia. L’altro ieri
sono stati colpiti dei magazzini della Marina militare, che si trovano nella zona
portuale di Tripoli. Noi giornalisti siamo andati a vedere. Si tratta di magazzini
dove venivano tenuti degli automezzi russi per il trasporto di missili e tutto il
materiale per i pezzi di ricambio. E’ un magazzino-deposito, dove non ci sono armi
utilizzabili.
D. – Dopo i raid, voi giornalisti spesso siete portati
sui luoghi di questi bombardamenti. C’è il rischio che possiate diventare ‘scudi umani’
inconsapevoli?
R. – Quando hanno bombardato la caserma di Bab al Aziziya
c’è stato questo rischio, perché subito dopo il 'tomahawk' che è arrivato
sul compound, hanno organizzato un autobus per portarci nella caserma. Io ed altri
giornalisti italiani e qualche collega straniero ci siamo rifiutati, perché ritenevamo
la situazione non completamente sicura. Gli altri sono andati e poi abbiamo saputo,
appunto, che all’ultimo è stato rinviato un attacco che era previsto proprio sulla
caserma. E’ chiaro che se c’è la presenza dei giornalisti è difficile che le forze
della coalizione possano bombardare. Ma se manca un avviso nella catena di comando,
per noi questo rischio diventa concreto.
D. – Soffermiamoci anche sul
possibile futuro della Libia. Oggi la Tripolitania e la Cirenaica sono due volti nettamente
distinti di questo Paese. Se ci sarà un post Gheddafi, quali saranno le priorità,
proprio per cercare di ricomporre questo mosaico libico?
R. – Stanno
cercando di utilizzare i consigli tribali per trovare una soluzione pacifica al conflitto
che sta avvenendo in queste settimane. E’ stata organizzata una grande marcia verso
Bengasi, una marcia pacifica non organizzata né dal governo né dai comitati popolari,
ma dal Consiglio popolare e sociale. Si tratta di una sorta di organismo che raggruppa
tutte le tribù del Paese e al quale hanno aderito anche i Warfalla. Infatti, in questo
momento, ci troviamo a Beni Oualid, che è una roccaforte dei Warfalla, la tribù che
in questo scenario è profondamente divisa. In ogni caso, questo è indicativo del fatto
che alcune tribù, che all'inizio si erano staccate, si stanno riavvicinando, forse
anche a causa dei bombardamenti stranieri: questo Paese non accetta ingerenze esterne.
(ap)
L’accordo raggiunto tra le potenze alleate per affidare alla Nato
il controllo delle operazioni militari sulla Libia ha messo in luce tutte le difficoltà
politiche che caratterizzano questo sistema di alleanza militare, rischiando di comprometterne
l’efficacia. Stefano Leszczynski ha intervistato Paolo Quercia, esperto
di questioni internazionali.
R. - Il punto
importante è che c’è stato un accordo politico tra Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna.
Il contenuto di questo accordo, però, deve ancora essere meglio specificato e condiviso
da tutti gli altri Paesi Nato anche perché, dai comunicati comparsi, si parla di un
comando integrato della Nato a sostegno delle forze della coalizione, la "coalizione
dei volenterosi" che comprende anche Paesi non-Nato.
D. - La situazione
nuova che il conflitto con la Libia ha messo in luce è un po’ questa disgregazione
di intenti all’interno dell’Alleanza Atlantica. Insomma, è un’alleanza tutt’altro
che granitica …
R. - Da questa vicenda la compattezza politica dell’Alleanza
Atlantica ne esce un po’ compromessa. Si registrano, tra i Paesi Nato, almeno tre
o quattro comportamenti diversi: dalla neutralità nei riguardi delle operazioni Nato
- che non comporta poi un’interdizione - come il caso della Germania; alla posizione
turca, che invece prevede una contrarietà all’intervento al di là dello stretto supporto
umanitario e forse al blocco navale; ed infine all’Italia, che invece vuole riportare
tutto sotto la Nato, senza lasciare nessuna guida politica esterna dell’operazione.
C’è poi la Francia, che vuole piuttosto procedere utilizzando strutture Nato ma con
una comando politico della coalizione espresso a livello di ministri degli Esteri.
D.
- A livello regionale c’è il pericolo che la guerra civile libica possa, in qualche
modo, allargarsi e contagiare i Paesi limitrofi?
R. - Il grande rischio
che pone la Libia è il collasso, proprio per l’atipicità del sistema statale libico,
ed anche la possibilità che vengano messi in discussione i confini stessi della Libia,
con un effetto-domino molto pericoloso, non tanto verso Tunisia ed Egitto quanto verso
altri Paesi dell’Africa Subsahariana.
D. - Quindi, in sostanza, quei
Paesi che hanno dei conti in sospeso con il regime di Gheddafi potrebbero approfittarne
per una rivalsa anche territoriale …
R. - Certo. E’ chiaro che c’è questo
rischio se nella continuità e nella transizione non si mantengono in piedi delle strutture
statali, se i confini non sono presidiati, se non c’è più un’amministrazione. In passato
ci sono state guerre tra Libia e Paesi contermini, ci sono discorsi di risorse che
possono essere rimessi in gioco e rivendicati ... (vv)
La situazione umanitaria
in Libia resta drammatica: sono migliaia le persone in fuga nell’est del Paese che
abbandonano le loro case. Molti attraversano il confine con l’Egitto nel timore anche
di rappresaglie da parte dei sostenitori del governo. A raccontarlo sono gli operatori
dell’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati che si trovano al confine libico-egiziano.
Prestare assistenza, dicono, è una vera e propria sfida. Francesca Sabatinelli
ha intervistato Lawrence Yolles, delegato dell'Agenzia delle Nazioni Unite
per i rifugiati (Unhcr) per il sud Europa.
R. – E’ difficile
dare dati molto precisi. E’ chiaro che ci sono stati gruppi di persone, soprattutto
famiglie, che sono andate verso la frontiera egiziana. Finora sono 15 mila i libici
– non solo negli ultimi giorni, però – che hanno attraversato la frontiera egiziana
e sono andati verso l’interno dell’Egitto. Quindi, l’Egitto ha le frontiere abbastanza
aperte. Naturalmente, in molti c’è timore di rappresaglie e quindi c’è gente che ha
cominciato a partire. Devo anche dire, però, che almeno negli ultimi due giorni, la
frontiera con l’Egitto è stata relativamente tranquilla.
D. – Sappiamo
che dovrebbe esserci personale dell’Unhcr in Egitto, che accoglie queste persone.
In che condizioni sono?
R. – Le condizioni non sono buone: devo dire
che sono molto difficili e in effetti stiamo negoziando con le autorità egiziane per
avere il permesso di poter migliorare le condizioni alla frontiera, dalla parte egiziana.
Questi permessi arrivano con il contagocce, quindi in realtà non ci sono ancora, ma
pensiamo che nel futuro la situazione migliorerà. Non ci sono i campi che normalmente
noi avremmo auspicato, e che avremmo aiutato a mettere in piedi dalla parte egiziana,
e soprattutto credo che gli egiziani considerino quella parte della frontiera sostanzialmente
come un transito e non un posto dove la gente possa rimanere per lungo tempo. In effetti,
abbiamo visto già 137 mila persone attraversare quella frontiera, di cui però un gruppo
abbastanza grande, 79 mila - quindi la maggior parte - sono egiziani che dalla Libia
ritornano in Egitto, e in più ci sono tra i 15 e i 20 mila libici. I libici possono
entrare e finora quelli che sono entrati sembrano potersela cavare: sembra che abbiano
i mezzi per continuare all’interno dell’Egitto e trovare la loro via. Pensiamo, però,
che se la situazione dalla parte di Bengasi continuerà così, con questa sorta di assedio
che c’è stato negli ultimi giorni, è possibile che si comincino a vedere arrivare
dei gruppi di libici, che non hanno i mezzi che avevano i primi 20 mila e che avranno
bisogno di un sostegno più solido. I gruppi di persone che arrivano alla frontiera
egiziana e che hanno un problema molto, molto maggiore sono quelli che non possono
continuare - eritrei, somali, sudanesi, le persone che per diverse ragioni non vogliono
ritornare nei loro Paesi d'origine – e che quindi sono praticamente bloccati lì. Poi
ci sono persone di altre nazionalità, di cui le ambasciate o i governi non si stanno
occupando immediatamente. Per esempio, il Bangladesh è uno di questi Paesi. Si sta
sviluppando una tensione tra gruppi di altri Paesi, che sono lì alla frontiera, che
vorrebbero partire, ma che non hanno i mezzi per farlo. Noi stiamo organizzando, insieme
all’Organizzazione internazionale per le migrazioni, dei viaggi: ci sono aerei continui
che partono sia dall’Egitto che dalla Tunisia per portare le persone nei loro Paesi
di origine.
D. – Queste persone, che non possono permettersi di circolare,
di trovare un riparo con i loro mezzi, in che situazione sono?
R. –
Non ci sono le strutture adatte: non sono molto solide e non hanno i nostri standard.
Quindi, dal punto di vista igienico, dal punto di vista sanitario e dell’organizzazione
è un po’ un disastro.
D. – Lei ha parlato di trasporto aereo che avete
organizzato per le persone; invece, per quanto riguarda l’invio di aiuti di prima
necessità prevedete qualcosa?
R. – Sì, stiamo stabilendo dei piani di
intervento, soprattutto sulla frontiera con l’Egitto, e stiamo già predisponendo viveri
e altri beni di prima necessità, che stiamo portando dai nostri depositi a Dubai e
immagazzinando nelle vicinanze, per poterli utilizzare nell’eventualità di un grande
esodo dalla Libia verso l’Egitto. Stiamo, dunque, approntando dei piani d’intervento
che presto potremo condividere con i vari governi. (ap)