Sentenza sul Crocifisso. Il prof. Cardia: la tradizione per eccellenza di quasi tutti
i Paesi europei è quella cristiana
La Corte europea dei diritti dell’uomo che fa capo al Consiglio d’Europa ha chiuso
venerdì scorso il caso Lautsi relativo all’Italia, con una sentenza che ha dato speranza
all’Europa. Moltissimi i commenti positivi in questi giorni da parte di esponenti
di Chiesa, ma anche di tanti ambiti politici e istituzionali. Da un punto di vista
giuridico, nel 2009 la prima sentenza riconosceva alla signora Lautsi il presunto
diritto a non avere il Crocifisso nelle aule scolastiche per non influenzare l’educazione
dei minori. Dopo il ricorso dell’Italia e un ampio dibattito, la Corte europea ha
affermato come il margine di manovra di uno Stato in questioni che attengono alla
religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Fausta Speranza
ha chiesto al giurista Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico all’Università
Roma Tre, un commento circa il ritorno alla linea che aveva guidato tutte le precedenti
sentenze:
R. – Sì,
è senz’altro così, perché la sentenza del 2009 aveva causato uno "strappo" molto forte
alla giurisprudenza della Corte. Era una giurisprudenza trentennale, continua, coerente,
che si rifaceva poi alla normativa europea. Nella normativa europea, ci sono – tra
le tante cose – due punti fermi: uno, che l’Europa rispetta e valorizza le tradizioni
dei Paesi. Questo sta scritto nella Cedu, la Convenzione europea per i diritti dell’uomo,
e sta scritto nel Protocollo che istituì il Consiglio d’Europa. Quindi, rispetto e
riconoscimento, rispetto delle tradizioni spirituali. In secondo luogo, questo margine
di manovra vuol dire che ciascuno Stato - che possiede sfumature diverse di tradizioni
- ha poi il diritto di interpretare, valorizzare, in sintonia con i diritti di libertà,
queste tradizioni. Ricordiamo che, altrimenti, l’Europa non sarebbe nata. La tradizione
per eccellenza di quasi tutti i Paesi europei è quella cristiana. Dire che la tradizione
per eccellenza dell’Italia è quella cattolica, mi sembra ancora più facile. Quindi,
questo cardine è stato ripristinato dopo lo strappo della sentenza del 2009. Questo
fa stare tranquilli tutti gli Stati europei, perché tale sentenza riguarda l’Italia
nel caso specifico ma è rivolta a tutti gli Stati europei. Anche perché, assieme all’Italia,
si sono costituiti in giudizio, davanti alla “Grande Chambre”, diversi Paesi, molti
ortodossi, e quasi tutti quelli europei avevano manifestato sconcerto e rifiuto della
sentenza, per così dire, di primo grado.
D. – Si nega un’influenza sugli
alunni: questa era la tesi della richiedente che sosteneva di essere lesa nel suo
diritto ad educare i propri figli a non credere dalla presenza del Crocifisso nelle
aule. La Corte ha stabilito che non è così, anche perché nel curriculum didattico
in Italia non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e l’ambiente scolastico
italiano è comunque aperto ad altre religioni. Anche questa è stata una battaglia
giuridica: il riconoscimento di una condizione di apertura nelle scuole italiane…
R.
– Questi sono due punti di merito di eccezionale rilevanza. La concezione da cui partiva
la famiglia Lautsi era che il simbolo religioso comportasse un turbamento psicologico
dei bambini e dei ragazzi. L’affermazione della Corte è importante, perché ricorda
che il simbolo di per sé non è un simbolo di parte, che si oppone alle altre parti:
non condiziona la coscienza perché riflette in modo libero un sentire comuneì, che
riguarda la nostra tradizione religiosa. Questo è un punto essenziale. L’altro aspetto
- mi permetto di dire che l’avevo fatto risaltare in maniera notevole quando posi
le basi per la difesa dell’Italia – è che la scuola italiana è una delle scuole più
pluraliste che esistano. Anzitutto, l’insegnamento religioso cattolico è del tutto
facoltativo, tanto che c’è un 20-30% di ragazzi che non lo scelgono. Poi, vi è un
aspetto che non si conosce: vi sono facoltà legittimate per legge per altre confessioni
religiose che possono, se vogliono, seguire dei corsi di religione dal punto di vista
storico, dal punto di vista religioso per l’ebraismo… E poi aggiungo: tutti sanno
che nella scuola italiana entrano imam, vescovi – anzi, forse per i vescovi qualche
volte fanno pure qualche obiezione – entrano pastori protestanti, rappresentanti di
organizzazioni filosofiche … E’ una delle scuole più libere d’Europa, e mi riferisco
almeno agli ultimi trent’anni. Quindi, il fatto che la Corte abbia colto questo aspetto,
dà un fondamento più forte alla sentenza, perché non è solo un pronunciamento in punta
di legittimità - ciascuno Stato deve regolarsi secondo le proprie tradizioni - ma
anche nel merito, perché afferma che per chi ha una scuola libera, pluralista, il
Crocifisso accentua questa libertà e questo pluralismo, non lo nega e non lo offende.
D.
– C’è un altro punto: la Corte stabilisce, in pratica, che non è sua materia interferire
su queste cose per quanto riguarda l’Italia. Poi, però, aggiunge che questo è anche
perché in Italia c’è un dibattito aperto tra le istituzioni sulla presenza dei Crocifissi.
Ci aiuta, dal punto di vista giuridico, a ricordare le posizioni di questo dibattito
aperto?
R. – Sì. Questa affermazione della Corte si potrebbe estendere
ad altri Paesi. Solo in uno Stato non vi è discussione, in Francia, perché sono stati
esclusi radicalmente tutti i simboli religiosi, tutti. Quindi, una laicità molto restrittiva.
Coerente – attenzione – però restrittiva. In diversi Paesi, la Corte costituzionale
o l'entità che rappresenta la nostra Corte di Cassazione, si sono trovate di fronte
ad alcuni – non molti – ricorsi. C’è dunque un dibattito, e cosa dice la sentenza
di Strasburgo della “Grande Chambre”? Che tale dibattito deve svilupparsi autonomamente:
noi non possiamo entrare nel merito. Ciò non esclude che in futuro vi siano degli
accomodamenti. Le faccio un esempio molto concreto. Con la multiculturalità, noi potremmo
avere delle classi composte da ragazzi di diversissimo orientamento religioso. Se
da qui a cinque, dieci anni – perché i tempi sono lunghi per la multiculturalità –
si trova una formula di presenza del Crocifisso o di qualche altro simbolo, non c’è
niente per cui scandalizzarsi. Ma tutto è fondato su un presupposto: che le radici
italiane sono quelle, e che altre presenze, altri contributi sono bene accolti sulla
base del principio che il simbolo religioso non divide. Il simbolo religioso – e la
Croce in primo luogo – deve unire le persone sui valori che esso rappresenta. Ecco
perché, ancora una volta, la Corte, la “Grande Chambre”, ha toccato un elemento importante
relativo all’autonomia dei singoli Stati.
D. – Siamo di fronte alla
sfida tra laicità e laicismo. Questa sentenza difende la laicità, ma è stata anche
l’occasione per ricordare che la Chiesa difende e si spende per la laicità. Diverso
è il laicismo, che vorrebbe essere una sorta di “tabula rasa” di qualunque trascendenza
o sentimento religioso. Anche dal punto di vista giuridico, questa sentenza mette
un punto fermo in questa confusione tra laicità e laicismo?
R. – Io
preferisco usare un altro termine, che però è praticamente contiguo a quello che ha
usato lei. Io preferisco parlare di laicità aperta e positiva, rispetto alla laicità
negativa e astiosa. La laicità negativa e astiosa, - quella che lei chiama laicismo
- è quella per la quale qualunque cosa - simbolo, presenza, pratica religiosa - venga
dalle religioni turba, offende e dev’essere chiusa dentro una scatola. In ogni caso,
ciascuno se la deve coltivare in casa propria. La laicità positiva riconosce invece
il contributo di tutte le religioni. Naturalmente, quella religione che rappresenta
la tradizione. Nel caso dell'Italia e dell'Europa è il cristianesimo, ma si pensi
al buddhismo che rappresenta la tradizione di buona parte dell’Asia: a nessuno viene
in mente di chiedere in Asia di togliere le statue di Buddha, onnipresenti. Quindi,
l’elemento del simbolo religioso diventa uno degli spartiacque tra la concezione positiva
e la concezione negativa della laicità. Questa sentenza dà un contributo importante
al riconoscimento della nostra laicità positiva, che non offende e non esclude nessuno,
ma cerca di integrare tutti – ripeto – sempre attorno a quei valori positivi che ci
vengono dalle nostre religioni.
D. – Tra l’altro, diciamolo, è proprio
il Crocifisso, è proprio Cristo ad avere insegnato “Date a Cesare quel che è di Cesare
e a Dio quel che è di Dio”, che è il primo vero insegnamento alla laicità...
R.
– Certo. Con il cristianesimo per la prima volta le gerarchie, le istituzioni ecclesiastiche
si distinsero da quelle civili: per la prima volta. Inoltre, il passo evangelico che
lei ha ricordato ha portato – lentamente – alla maturazione del principio di separazione
dei poteri e di laicità. E’ stato un processo lungo, però viene da noi: non viene
dall’Asia, che ha dato altri contributi su altri terreni. Non viene da Paesi lontani
e da altre religioni. Quindi, questo elemento della laicità è un po’ il coronamento
di un cammino che è iniziato con il cristianesimo ed è per questo che la nostra laicità
è potuta diventare una laicità inclusiva, aperta, positiva. (gf)