Ancora combattimenti in Libia: le truppe di Gheddafi si avvicinano a Bengasi. L'Onu
chiede il cessate il fuoco immediato
Ci spostiamo in Libia. Continua l’avanzata delle milizie del Muammar Gheddafi verso
Bengasi, città abbandonata intanto da diversi operatori umanitari tra cui la croce
rossa internazionale. ''E' urgente fermare il dittatore” ribadiscono gli Stati Uniti
in attesa delle decisioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu anche su un’eventuale
Fly zone. In molti intanto continuano a fuggire: per l’alto commissariato delle nazioni
unite per i rifugiati a premere per passare in Egitto ci sarebbero ancora 2.500 profughi.Da
qualche ora invece non si hanno più notizie di 4 reporter del New York Times. Il servizio
di barbara Schiavulli
In Libia sembra
quindi inevitabile lo scontro aperto tra le forze governative e quelle dell’opposizione.
Dopo la battaglia di Ajdibiya, sembra ormai imminente l’attacco contro Bengasi, roccaforte
degli insorti. La televisione di Stato ha trasmesso un messaggio rivolto alla popolazione
precisando che “non ci sarà alcuna vendetta contro i civili”. La comunità cattolica
vive questa drammatica situazione nella preghiera. Ecco la testimonianza del vescovo
di Bengasi, mons. Sylvester Carmel Magro, intervistato da Amedeo Lomonaco: R. – Quando si
sente la guerra così vicina, si prova anche molta apprensione e preoccupazione. Viviamo
con la speranza e nella preghiera; tutti noi, le religiose e i sacerdoti, contiamo
molto sulla preghiera: questo è il nostro rifugio e la nostra speranza. Finora la
situazione nella città è normale: le strade sono piene di macchine, come accade normalmente,
in tempo di pace. Non ci sono in giro soldati né armamenti, ad eccezione di alcune
aree sulla spiaggia.
D. – In questo momento così difficile, quale è il suo
appello?
R. – Noi chiediamo che tutti preghino per la pace, perché è il dono
più grande che possano farci. Perché veramente, senza la pace ci si sente smarriti,
mentre con la pace e con la preghiera – che ci aspettiamo da tutti – ci viene il soccorso
dall’Alto: questa è la nostra fiducia. Ogni giorno abbiamo l’adorazione eucaristica,
la recita del Rosario, naturalmente la Santa Messa; i cristiani – quei pochi che sono
rimasti – vengono alla Messa, malgrado le difficoltà … Per questo, ci sentiamo vicini
gli uni agli altri mediante la presenza di Dio e di Cristo sofferente, specialmente
in questo tempo di Quaresima, che quotidianamente ci dà molto coraggio e grande consolazione.
D.
– Se le truppe del colonnello Gheddafi dovessero riprendere il controllo di Bengasi,
come pensa che si possa poi reimpostare il futuro, dopo tutto quello che è accaduto
in Libia e in particolare a Bengasi?
R. – E’ una domanda difficile, perché
non possiamo sapere cosa succederà. Non siamo in grado di prevedere niente, perché
la situazione è molto fluida.
D. – Da parte della Chiesa l’auspicio è che la
situazione sul piano politico e sociale possa trovare comunque un momento di riconciliazione
e di dialogo…
R. – La Chiesa continua ad operare con la sua presenza, specialmente
qui a Bengasi: abbiamo tante suore che lavorano negli ospedali con i malati. Eroicamente,
tutti insieme rimaniamo qui, al nostro posto di lavoro con i sofferenti. Questo è
un grande segno di solidarietà, soprattutto in questi tempi difficili in cui tantissimi
lavoratori sono fuggiti dal Paese. La nostra presenza è di incoraggiamento spirituale
ma anche psicologico, di sostegno anche ai locali che ammirano la decisione che abbiamo
preso: quella di non abbandonare il nostro ruolo di messaggeri di pace e anche di
soccorso tramite le suore infermiere che lavorano negli ospedali della città.
D.
– Questa vostra presenza è davvero importante. Come già ha detto, sembra che a Bengasi
si stia avvicinando la guerra. Nonostante questo, la Chiesa continua ad accompagnare
la popolazione locale. Questa presenza verrà sempre assicurata?
R. – Sì, al
limite del possibile noi rimarremo qui per questa vocazione che ci viene dal Signore
e per la quale noi sentiamo che bisogna stare e rimanere nel posto che la Provvidenza
ci ha assegnato.
D. – Sentite l’affetto della popolazione?
R. – Sì,
specialmente dopo aver visto che noi siamo rimasti: è stato per loro un grande sollievo.
Anche i direttori degli ospedali hanno manifestato grande apprezzamento per questo
gesto e per questa decisione, vorrei dire, quasi eroica: rimanere nonostante la paura
che ciascuno di noi sente. E’ un segno, una testimonianza veramente di valore, una
testimonianza cristiana.
D. – Quale è adesso la vostra speranza?
R.
– La nostra speranza è che questo ciclone finisca al più presto per il bene di tutti.
Questa è la nostra preghiera, la nostra speranza perché – come diceva Papa Pio XII
– “nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra!”. Questa è la nostra
preghiera quotidiana alla quale chiediamo che si uniscano tutte le anime che ascoltano
il nostro appello tramite la Radio Vaticana. (gf)