Il "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI: intervista con il cardinale Ravasi
Vasta eco ha suscitato in tutto il mondo la pubblicazione nei giorni scorsi della
seconda parte del libro di Benedetto XVI “Gesù di Nazaret”. In quest'opera il Papa
ha ripercorso i Vangeli dall'ingresso in Gerusalemme fino alla Risurrezione cercando
di offrire ai lettori il Gesù reale, in un modo che possa essere utile a tutti coloro
che vogliono incontrare il Cristo e credergli. Ascoltiamo in proposito la riflessione
del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, il cardinale Gianfranco
Ravasi, al microfono di Sergio Centofanti:
R. – L’espressione
“Gesù reale” è veramente significativa, perché non si identifica con il puro e semplice
Gesù storico, cioè con il Gesù che è dimostrato attraverso la documentazione storiografica.
Il Gesù reale è molto più complesso. Non per nulla il Papa parla esplicitamente della
necessità di un’interezza metodologica, cioè di un intreccio tra un’interpretazione
che dia tutti i documenti, tutte le conferme, tutte le analisi di tipo storico, ma
al tempo stesso consideri che la figura di Gesù ha bisogno anche di un’altra interpretazione,
secondo una dimensione più profonda, più intima, più teologica. Questi due approcci
differenti devono integrarsi tra di loro. Distinguere i due livelli – il livello storico
e il livello teologico – non significa affatto separarli, né contrapporli né meramente
giustapporli: si danno proprio in reciprocità. E questa penso sia la grande prospettiva
che Benedetto XVI ha adottato per la lettura integrale di questi eventi capitali della
vita di Cristo, ma anche della storia della cristianità.
D. – Qual è
il risultato di questa metodologia, che vuole congiungere ermeneutica della fede e
della storia?
R. – Il risultato è innanzitutto a livello globale. Si
riesce a capire l’avvenimento della figura di Cristo, della sua parola e delle sue
opere nella sua complessità, cioè nella sua totalità. C’è una bella espressione che
usa il Papa nell’interno del suo libro: il “Factum est” del prologo di Giovanni vale
come categoria cristiana fondamentale. Questa espressione è significativa, perché
da un lato c’è il Logos, cioè la divinità, l’eterno, l’infinito, il trascendente,
l’assoluto, il divino, che è innestato nell’interno e profondamente innervato nella
figura del Gesù storico, il quale però al tempo stesso è “Factum est”, e cioè evento
e realtà concreta. La fede, da un lato, ha bisogno certamente del radicamento nella
storia. E’ ancora il Papa che dice più o meno quest’idea: se la storicità delle parole
e degli avvenimenti essenziali fosse impossibile, in modo non dimostrabile dal punto
di vista scientifico, la fede perderebbe il suo fondamento, ma al tempo stesso fa
notare che se la certezza di fede si basasse solo su un dato storico, su un accertamento
storico-scientifico, non sarebbe più una realtà di fede, sarebbe sempre rivedibile
e mutevole secondo le analisi storiografiche.
D. – Uno dei punti forse
più intensi del libro è quello che riguarda la Risurrezione: "senza fede nella Resurrezione
– dice il Papa – la fede cristiana è morta"...
R. – I temi suggestivi
sono molti. E’ interessante. Per esempio, prima di arrivare a questo nucleo estremo,
fondante per il cristianesimo, che è la Risurrezione, ci sono considerazioni molto
interessanti sul tema del futuro: quando tratta il cosiddetto discorso escatologico
di Gesù e lo fa – il Papa – sulla base dell’intreccio tra profezia e apocalittica,
non si tratta di una descrizione dell’avvenire come ci si potrebbe aspettare da veggenti
- dice il Papa - ma è entrare nella visione dell’avvenire che viene offerto; quindi,
la Parola di Dio illumina il futuro nel suo significato essenziale, non dà una descrizione.
Un altro tema molto interessante che viene sviluppato, sempre in preparazione a questa
tappa ultima della Risurrezione, è la lettura della lavanda dei piedi, che è vista
– dice – come “sacramentum”, cioè come segno efficace della sua donazione, della donazione
di Cristo nella morte, ma anche come “exemplum”, che non è semplicemente l’imitazione
dell’umiltà: è l’imitazione di una donazione, di una totale comunione d’amore; oppure
anche la rappresentazione della preghiera sacerdotale di Gesù sullo sfondo del rito
ebraico del kippur o ancora l’analisi molto accurata tra le due volontà - la volontà
divina e l’umana - quando Cristo si trova sull’abisso della morte e vi si avvia come
persona che ha in sé la dimensione umana e la dimensione divina. Ma poi, alla fine,
c’è evidentemente questo evento in cui storia e fede si intrecciano in maniera radicale,
sostanziale; e poi, soprattutto, il Papa esamina le due forme con cui viene presentata
la Risurrezione: da una parte il genere della professione di fede e, dall’altra parte,
la narrazione. E qui si vede proprio molto bene come sia necessario avere questa duplicità
di approccio. La conclusione è molto bella e io direi sarebbe quella da adottare,
oltre a quella finale in cui le mani di Cristo si stendono sulla cristianità e sui
secoli: è l’ascensione, che è quasi la spiegazione ultima e definitiva della Risurrezione;
l’essere innalzato nell’ascensione è un ingresso nell’infinito e nell’eterno di Gesù.
E come dice il Papa in maniera molto illuminante, folgorante: l’ascensione non è un
andarsene in una zona lontana del cosmo, è invece la vicinanza permanente, propria,
dell’eterno e dell’infinito che abbraccia, ingloba in sé il tempo e lo spazio. (ap)