Manifestazioni in Corea del Nord: dura la risposta del regime
Le motivazioni che hanno scatenato le crisi nel mondo arabo e islamico stanno infiammando
anche l’Estremo Oriente. Dopo la Cina, anche in Corea del Nord centinaia di manifestanti
si sono scontrati con le forze di sicurezza nella cittadina di Sinuiju, al confine
con la Repubblica Popolare. Gli episodi risalgono al 18 febbraio, ma la notizia è
trapelata solo nei giorni scorsi. La repressione, operata dai militari del regime
di Kim Jong-il, avrebbe provocato numerosi feriti e, probabilmente, anche diversi
morti. All’origine della rivolta, il peggioramento progressivo delle condizioni socio-economiche.
Giancarlo La Vella ne ha parlato con Stefano Vecchia, esperto di questioni
asiatiche:
R. – Il motivo
principale è sostanzialmente la fame. La povertà della popolazione che viene tenuta
in secondo piano, che viene repressa di continuo dallo Stato poi però emerge, com’è
successo in questi giorni. Scintilla scatenante sono stati i festeggiamenti per il
compleanno di Kim Jong-Il, che hanno distolto, hanno portato via energia preziosa
a diverse città del Nord. Città che quindi sono rimaste al buio, creando ulteriori
difficoltà ad una popolazione che già abitualmente vive profondi disagi.
D.
– Il regime nord-coreano rischia, come quelli nord-africani, di non riconoscere in
tempo le istanze sociali ed economiche che vengono dalle popolazione?
R.
– Sì, anche perché non c’è questa sorta di ammortizzatore costituito dai mass-media.
La Corea del Nord è un Paese che il regime vorrebbe totalmente isolato e, di conseguenza,
qualunque stimolo esterno diventa immediatamente dirompente. Le cause principali,
però, sono interne. In questo senso, il regime pare non recepisca assolutamente quelle
che sono le necessità non solo della popolazione ma anche di quello che sta succedendo
attualmente in Nord Africa e nel Medio Oriente.
D. – A che cosa guarda,
oggi, la Corea del Nord a livello internazionale? A creare alleanze con alcuni Paesi
o comunque a rimanere isolata, un po’ come avviene per la Birmania?
R.
– Sì, la volontà è quella di restare isolata, perché qualunque apertura potrebbe avere
conseguenze dirompenti. Non a caso il referente prossimo, l’unico protettore del Paese
– che è la Cina -, comincia ad accusare evidenti difficoltà. Questo perchè la Cina
da un lato non può premere più di tanto sulla Corea del Nord perché accetti i compromessi
con la comunità internazionale e la Corea del Nord, allo stesso tempo, non può nemmeno
comunicare ai propri cittadini qual è la situazione, anche dei rapporti con la Cina,
perché i nord-coreani sanno che la Cina è comunque in una situazione assolutamente
migliore dal punto di vista dell’apertura al mondo. Il Paese, quindi, resta isolato
e forse, non a caso, in questi anni si è registrato un forte avvicinamento tra il
regime nord-coreano e quello birmano.
D. – Secondo molti osservatori
internazionali, l’onda lunga delle crisi nord-africane sta arrivando già in Cina e
potrebbe arrivare anche in Russia...
R. – Indubbiamente si guarda a
Pechino, come a Mosca, con grande preoccupazione riguardo quello che sta succedendo
attualmente nell’Africa del Nord ed in Medio Oriente. Non solo in Cina e Russia ma
anche in molti altri Paesi asiatici dove, come dire, la democrazia è più come una
patina su dei sistemi di governo assolutamente poco liberali. Il vantaggio di Pechino
è un forte controllo sulle comunicazioni, in particolare su Internet. Soprattutto,
però, il vantaggio è il forte sviluppo del Paese: esso è unito in questo tentativo
ormai di sorpasso avvenuto sul Giappone ed in vista di un tentativo sugli Stati Uniti.
Diciamo che l’orgoglio nazionalista in questo momento trova quest’obiettivo. Evidentemente
la Cina profonda – che è quella che ha maggior necessità di riforma – è anche quella
che ha più difficoltà ad accedere alla conoscenza del mondo esterno. (vv)