"Rabbit Hole" e "Un gelido inverno", due film sul dolore e la difficoltà del vivere
Una famiglia borghese spezzata dal dolore per una tragica perdita, una famiglia nella
provincia americana assediata dalla droga con una ragazza alla ricerca del padre:
due film sul dolore e la voglia di vivere, di forte impatto emotivo, "Rabbit Hole"
di John Cameron Mitchell e "Un gelido inverno" di Debra Granik. Sono entrambi in corsa,
con diverse nomination, ai premi Oscar. Un impegno anche per la distribuzione
che coraggiosamente sostiene un cinema di spessore e qualità. Il servizio di Luca
Pellegrini:
Ecco un dialogo
tra una madre ed un padre:
“A me sembra invece che sia così, sembra
che io non mi senta abbastanza male per te, che non provi abbastanza dolore! Ma che
cosa vuoi da me?”
Ed ecco quello tra una nipote e lo zio:
“-
Sto cercando mio padre. Tu sai dov’è, vero? - Non ti serve sapere dove si
trova tuo padre. - Ma tu lo sai… - Non l’ho visto".
Sono
tratti da due storie di dolore estremo che si dipanano in due film che approderanno
agli Oscar. Nel primo, è incolmabile la divaricazione fra memoria del passato ed intollerabilità
del presente quando si tratta di convivere con il ricordo di un figlio morto a quattro
anni per un tragico incidente. E’ il caos sentimentale occluso sotto la superficie
di una vita di per sé normale, alla quale tentano di adattarsi Nicole Kidman – candidata
come migliore protagonista – e Aaron Eckhart, nel film di John Cameron Mitchell. Nel
secondo una figlia, Jennifer Lawrence – candidata anche lei – si inabissa durante
‘un gelido inverno’ nel gorgo della violenza che sferza la provincia americana, alla
ricerca del padre – vivo o morto –, perché costretta dall’istinto di sopravvivenza
per se stessa e per la famiglia. Insomma, due titoli difficili, impegnativi. Abbiamo
chiesto ad Angelica Canevari, della Videa, per quale ragione
ha scelto di distribuire in Italia “Rabbit Hole”:
R. - Abbiamo comprato
questo film leggendo la sceneggiatura, che abbiamo trovato molto bella e molto commovente
e forse anche per questa sfida: penso che apparentemente lo spettatore sembri più
superficiale, probabilmente per il periodo così difficile che stiamo attraversando.
In realtà, offrire degli spunti e dei momenti di riflessione non credo faccia mai
male.
D. – Che cosa l’ha colpita maggiormente del film con Nicole Kidman?
R.
– Sicuramente, l’argomento trattato, essendo io una donna ed anche una mamma. E’ un
argomento che colpisce moltissimo. Non credo che nessuna donna, anzi, nessuna mamma
non si sia mai posta questa domanda o non abbia riflettuto riguardo questa questione.
L’argomento in sé è molto vicino a tutte le donne e quello che mi ha colpito è il
modo di trattarlo nel film, un modo di raccontare questa storia che non è mai ridondante
ma piuttosto asciutto.
D. – Il tema del dolore: perché, secondo lei,
il cinema offre in questo periodo, anche con l’amplificazione mediatica che l’Oscar
può dare, una riflessione così profonda e così esigente?
R. – Probabilmente,
non siamo i soli a pensare che degli spunti di riflessione, in un periodo complicato,
servano. Riflettere sul dolore, quindi, può essere anche un modo per superarlo, per
rendere la questione catartica.
Chiediamo invece a Mario Fiorito,
della Bolero Film – anche se la casa di distribuzione è impegnata a difendere un cinema
di rigore – da che cosa sia rimasto primariamente colpito quando ha visto per la prima
volta “Un gelido inverno”:
R. – La prima cosa è stata l’interpretazione
sia della ragazza sia dell’attore non protagonista, che secondo me sono interpretazioni
stupende. Inoltre l’ambientazione, così diversa da tutti gli altri film. E’ una zona
dell’America sconosciuta, dove uno non pensa ci possano essere questo tipo di problematiche.
D.
– Lo spettatore, dopo aver visto “Un gelido inverno”, come dovrebbe uscire dalla sala
cinematografica, con quale tipo di riflessione?
R. – Il finale, secondo
me è positivo. Riguarda la lotta della ragazza per tenere la casa, ma non solo: la
casa non tanto come luogo ma come famiglia. La sua lotta per conservare questo posto
- ed in un certo senso anche le tradizioni oltre che il possesso materiale - va a
buon fine. Inoltre, secondo me, la figura forse più scavata è quella dello zio, che
alla fine, consapevole che arrivare alla verità lo condannerà a morte, sceglie comunque
di andare avanti e di riscattarsi da un certo tipo di vita che ha vissuto appunto
fino a quel momento.(vv)