Egitto: prima riunione del governo di transizione. Nella Striscia di Gaza, intanto,
situazione ancora più difficile dopo la rivolta in Egitto
A due giorni dalle dimissioni di Mubarak in Egitto si apre l’attività del governo
di transizione, presieduto dal primo ministro Ahmad Shafik, che si è riunito per la
prima volta questa mattina per esaminare la situazione interna. Intanto il Consiglio
supremo delle forze armate manda segnali positivi alla comunità internazionale confermando
i trattati di pace con Israele. Il servizio di Marco Guerra:
Le priorità
del governo egiziano, dopo le dimissioni del presidente Hosni Mubarak, sono il ripristino
della sicurezza e il ritorno alla vita normale per la popolazione. Lo ha detto ieri
sera il primo ministro Ahmed Shafiq alla televisione di Stato, dopo aver incontrato
il capo del Consiglio supremo militare, Mohammed Hussein Tantawi. I due poteri, quello
civile e quello militare, mostrano una certa comunità di intenti. Il consiglio dei
16 generali guidati dal ministro della difesa conferma infatti che il governo attuale
resterà in carica fino alla formazione di un nuovo esecutivo che aprirà la strada
ad una autorità eletta per costruire uno Stato libero e democratico. Al riconoscimento
del governo si aggiunge anche quello dei trattati di pace con Israele che assicurano
l’intera stabilità della regione mediorientale. Grande soddisfazione è stata espressa
dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e dalla Casa Bianca. E l’esercito
vuole un ritorno alla normalità anche per le strade e nei luoghi simbolo della rivolta.
Questa mattina i militari hanno chiesto di smontare le tende e di sgomberare pizza
Tahrir ai 2000 manifestati accampati da oltre 15 giorni. E non sono mancati momenti
di tensione: la polizia militare ha sparato in aria mentre i manifestati chiedevano
a gran voce l'annullamento della legge d'emergenza in vigore dal 1981. Intanto in
Egitto si aprono i giochi politici in vista del voto. Ieri Amr Moussa ha annunciato
le sue imminenti dimissioni da capo della lega araba. In molti lo leggono come il
segnale di una sua probabile candidatura.
Nei giorni scorsi, parallelamente
alle manifestazioni di piazza in Egitto per chiedere le dimissioni di Mubarak, si
sono svolte dimostrazioni anche nella Striscia di Gaza. Le condizioni di vita nella
zona controllata da Hamas, dov’è ancora in atto il blocco imposto dalle autorità israeliane,
rimangono difficili nonostante lo Stato ebraico nel giugno 2010 abbia autorizzato
la circolazione di alcune merci civili, ad esclusione di materiali quali acciaio e
cemento. Secondo dati rilevati dall’Agenzia delle Nazioni Unite a sostegno dei profughi
palestinesi, la disoccupazione nella Striscia di Gaza ha raggiunto il 45 per cento
all’inizio di quest’anno. Giada Aquilino ha raggiunto telefonicamente il parroco
della Sacra Famiglia a Gaza, il padre argentino Jorge Hernandez:
R. – La Striscia
di Gaza ha evidentemente risentito del periodo di cambiamento in Egitto, soprattutto
in questo primo momento, in cui a causa della stessa situazione si è fermato un certo
sviluppo che si poteva intravedere qui a Gaza. Com’è risaputo, Gaza vive grazie ai
tunnel. In queste settimane, alcuni articoli - come cibi e prodotti relativi all’igiene
e alla pulizia - proprio perché non entrano dall’Egitto tramite i tunnel non si trovano.
Inoltre sono aumentati i prezzi: il gas, ad esempio, non si trova; la benzina è costosissima.
D.
– Come vive la Striscia di Gaza in questi mesi? Quali sono le condizioni di vita della
popolazione?
R. – La situazione dell’Egitto si ripercuote sulla Striscia
di Gaza, però certi problemi non sono causati dalla situazione egiziana ma dal blocco.
Ad esempio, si fa sentire molto la mancanza di lavoro. Per quanto riguarda la situazione
sanitaria, ci sono persone che magari non trovano le medicine o il necessario per
la loro salute e hanno grande difficoltà ad uscire dalla Striscia. Questa, purtroppo,
è la vita a Gaza.
D. – Lei è parroco da circa due anni a Gaza. Come
si svolgono le attività alla parrocchia?
R. – I cristiani, a Gaza, vivono
innanzi tutto come palestinesi. Poi per i cristiani la Chiesa è tutto, sia nel senso
sociale sia come rifugio. Talvolta la Chiesa aiuta anche economicamente molte famiglie
nel sostentamento quotidiano. Non è, dunque, solo un luogo di preghiera ma è anche
un luogo di ritrovo sociale, di ‘terapia’ se vogliamo. La Messa domenicale non vuol
dire solo Messa e poi ognuno a casa sua: restiamo insieme, parliamo, è davvero un
forte momento comunitario perché incoraggia ad andare avanti. Un altro esempio: abbiamo
in parrocchia l’oratorio festivo per i giovani ed i bambini; lavoriamo con la Chiesa
ortodossa, comunque in nome di un solo Signore e di una sola fede.
D.
– Quanti sono i cristiani a Gaza?
R. – I cristiani sono circa tre mila.
La maggior parte è ortodossa. I latini sono 206. Un altro apostolato molto importante
riguarda la visita ai malati e le riunioni settimanali per i matrimoni, soprattutto
con i giovani, per accompagnarli nella loro vita, nella loro strada.
D.
– Qual è l’auspicio della Chiesa di Gaza per il futuro della popolazione?
R.
– Creare una speranza, altri valori. Si deve avere pazienza. Questo è quello che dà
coraggio. (vv)