Cinque anni fa l’uccisione di don Andrea Santoro. Mons. Feroci: testimone di Cristo
per il Medio Oriente
“Dio ti chiama ad ogni momento, dove sei e in quello che fai. Ed è lì, non altrove,
che bisogna rispondergli”. E’ uno dei pensieri di don Andrea Santoro, il sacerdote
fidei donum della diocesi di Roma, ucciso il 5 febbraio di 5 anni fa mentre pregava
nella sua parrocchia di Santa Maria in Trabzon, in Turchia. Tante le iniziative che,
oggi, commemorano questa luminosa figura di sacerdote, che dedicò la sua vita ad annunciare
il Vangelo e a dialogare con i credenti di altre fedi. La diocesi di Roma lo ricorda
in particolare con una Messa nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, che verrà
celebrata oggi pomeriggio, alle 18.30, da mons. Alessandro Plotti, arcivescovo di
Pisa e già vescovo ausiliare di Roma. Per un ricordo di don Andrea, Alessandro
Gisotti ha raccolto la testimonianza del direttore della Caritas di Roma, mons.Enrico Feroci, di cui fu amico fin dagli anni del seminario:
R. - Il ricordo
che ho è relativo proprio gli ultimi istanti che lo ho visto, quando lo ho accompagnato
- insieme ad altre persone - all’aeroporto, era il 31 gennaio: il 5 febbraio è stato
ucciso. Il mio ultimo ricordo è proprio di quel momento, dell’ultimo abbraccio che
ci siamo dati, del suo sguardo, delle sue parole, del suo saluto, delle sue battute
amichevoli che mi ha rivolto in quegli ultimi momenti.
D. - Era proprio
felice di essere in Turchia, come fidei donum?
R. – Dovremmo sottolineare
proprio questo aspetto: la gioia di essere lì come presenza del Signore Gesù. Questo
lo diceva spesso: io presto il mio corpo, la mia vita affinché il Signore sia lì presente
in quelle terre, dove la fede è stata generata, nella Chiesa del Medio Oriente. Si
sentiva come se dovesse restituire a quelle terre, a quella Chiesa, a quel mondo,
la ricchezza che noi abbiamo. Era un debito di riconoscenza quello che sentiva, dentro
di sé, di dover dare alla Chiesa del Medio Oriente.
D. - Don Andrea
è stato anche un testimone del dialogo interculturale ed interreligioso…
R.
- Lui non era un teorico, un filosofo o una persona specializzata nel far incontrare
le persone e i diversi mondi: il suo dialogo scaturiva dal rispetto che il Signore
Gesù ha per tutte quante le persone; il suo dialogo nasceva perché si sentiva veramente
come Cristo, che amava ed ama tutte le persone che gli si avvicinavano: quindi, scaturiva
dalla sua profonda coscienza di sentirsi un tutt’uno con il Signore Gesù.
D.
- Sul suo comodino fu ritrovato il libro di Robert Royal “I martiri del XX secolo”:
don Andrea era consapevole che anche per lui sarebbe potuto arrivare il momento del
martirio?
R. - Una coscienza di essere ucciso, questo forse no; ma che
ci potesse essere una possibilità di una testimonianza forte, credo di sì: tanto è
vero che negli ultimi tempi - io sono andato a trovarlo due mesi prima della morte
- era rimasto un po’ turbato da violenze che aveva subito e il suo sguardo era più
triste…
D. - Era quindi consapevole anche della storia di quella Chiesa,
in cui si trovava?
R. - Certamente sì. Cosciente della ricchezza che
quella Chiesa ha dato: a pochi chilometri c’è Sumela, il grande monastero abbandonato
negli anni Venti; ci sono le grandi chiese di testimonianza… C’è una ricchezza enorme
di cristianesimo in quell’ambiente. Lui si rendeva conto di quello che era stato e
desiderava, quindi, che la presenza del cristianesimo fosse ancora molte forte.
D.
- Quali sono, secondo lei, i frutti più importanti che ci lascia don Santoro soprattutto
alla sua diocesi, la diocesi di Roma?
R. - Di annunciare Gesù, di essere
Cristo e di viverLo in maniera piena e in qualunque ambiente, sapendo dire “sì” alla
proposta di Dio. Lui questo ce lo diceva: sentire che ognuno di noi deve vivere profondamente
il dono che ha ricevuto, perché è un dono immenso. E alla nostra Chiesa dice: se voi
avete ricevuto questo dono, sappiate che dovete restituirlo come servizio ai fratelli
e al mondo, così come ha fatto Cristo. (mg)