2011-01-29 15:38:07

Proteste antigovernative in Egitto: almeno 90 morti. Obama a Mubarak: rispettare i diritti dei cittadini


Ancora tensioni in Egitto. Migliaia le persone che si sono radunate anche oggi in piazza al Cairo e in altre città, nonostante l’estensione del coprifuoco al pomeriggio. L’esercito avrebbe sparato contro la folla ad Alessandria: una novantina le vittime da martedì, secondo un primo bilancio fornito dai media locali. In mattinata sono arrivate le attese dimissioni dell’esecutivo chieste ieri sera dal presidente Mubarak nel suo discorso alla nazione. El Baradei, l’ex direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia Atomica e leader di uno dei movimenti di opposizione, ha chiesto le dimissioni del capo di Stato egiziano. I “Fratelli musulmani”, invece, hanno invocato una transizione pacifica, mentre l’Unione Africana ha espresso preoccupazione per quanto sta avvenendo. Il sovrano saudita, Abdallah, ha dichiarato solidarietà al leader egiziano; per l’Iran, le proteste in Egitto sono in linea con “un’ondata islamica” che vuole la “giustizia”. Il capo della Casa Bianca, Obama, ha ribadito che gli Stati Uniti sono al fianco del popolo egiziano, esortando il Paese ad impegnarsi per la democrazia. Su questa presa di posizione, Eugenio Bonanata ha intervistato Tiziano Bonazzi, docente di Storia americana all’Università di Bologna:RealAudioMP3

R. – La mia preoccupazione è che gli Stati Uniti sono estremamente in ritardo nella loro politica mediorientale. Si trovano di fronte a una serie di leader autocratici che vengono duramente contestati o addirittura rovesciati; leader nei cui confronti si sono comportati in un modo – in certi momenti – quasi servile, purché appoggiassero in termini generali la politica americana. Di conseguenza, tanto chiare sono state le parole di Obama quanto incerta è stata, negli ultimi anni, la politica statunitense nei confronti di questi presidenti e di questi leader autocratici. Non vorrei che fosse un po’ tardi per gli Stati Uniti, per parlare.

D. – Del resto, l’Egitto rappresenta un Paese chiave soprattutto in questo periodo in cui, oltre alle rivoluzioni che hanno caratterizzato altri Paesi del Nordafrica, c’è anche il Sudan che rappresenta una vera e propria polveriera …

R. - Senza dubbio sì, e non credo che gli Stati Uniti abbiano sviluppato una politica sufficientemente coerente nell’area. In definitiva, l’antica affermazione di Jeane J. Kirkpatric, che era la rappresentante statunitense all’Onu, inviata da Ronald Reagan, per la quale i dittatori erano sempre buoni purché fossero “i nostri” dittatori, ha continuato a essere la politica statunitense. Non ritengo che si tratti di una politica corretta; forse era una politica abbastanza inevitabile per una grande potenza che deve trovare appoggi ovunque possa e in qualunque modo possa. Insomma, ci troviamo di fronte a uno dei perenni interrogativi della politica internazionale: gli alleati sono quelli che sono, e spesso gli alleati importanti sono anche gli alleati che non si vorrebbero e non si dovrebbero avere.

D. – Per altri versi, questa presa di posizione di Obama che tende la mano ai giovani rivoluzionari che sono protagonisti della scena in Nordafrica, farà sicuramente discutere i commentatori?

R. – Sì, senza dubbio! Ritengo che questa sia la parte migliore del discorso di Obama. D’altronde, il presidente Obama ha visto quello che è successo in Tunisia, dove i giovani sono riusciti a rovesciare il governo senza buttarsi nelle braccia dei fondamentalisti: e questa, naturalmente, è la preoccupazione principale degli Stati Uniti, e non solo la loro. Naturalmente, questa non può essere la linea migliore. Probabilmente, potrebbe essere una linea non fortissima in un Paese come l’Egitto che ha apparati di sicurezza estremamente più forti e coesi di quelli che c’erano in Tunisia, però è una linea assolutamente indispensabile. Ritengo che questo appello ai giovani - che vedo estremamente consequenziale al famoso discorso che il presidente Obama fece in rapporto al mondo islamico in Egitto - sia la parte che possa fornire, almeno in termini molto generali, le migliori speranze per tutti noi.

D. - Il pericolo fondamentalista rischia di contagiare tutto il Nordafrica, fino al Medio Oriente?

R. – Il pericolo fondamentalista esiste. Dobbiamo però chiederci una cosa: cosa intendiamo per fondamentalismo? Se per fondamentalismo intendiamo che i musulmani intendono restare musulmani, profondamente musulmani, in modi magari per noi anche poco simpatici o poco consoni, bene, a questo ci dobbiamo arrendere. Se noi riteniamo di essere una nazione cristiana e vogliamo continuare a esserlo in modi che probabilmente non sono estremamente simpatici al mondo musulmano, dobbiamo concedere al mondo musulmano lo stesso, identico diritto. Se si va in questa direzione, allora non è fondamentalismo. Il fondamentalismo è quando si arriva a un islam aggressivo, a un islam terroristico, a un islam che intende non tanto creare una cultura propria e portarla avanti, ma attaccare e distruggere la cultura occidentale. (bf)







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