Proteste antigovernative in Egitto: almeno 90 morti. Obama a Mubarak: rispettare i
diritti dei cittadini
Ancora tensioni in Egitto. Migliaia le persone che si sono radunate anche oggi in
piazza al Cairo e in altre città, nonostante l’estensione del coprifuoco al pomeriggio.
L’esercito avrebbe sparato contro la folla ad Alessandria: una novantina le vittime
da martedì, secondo un primo bilancio fornito dai media locali. In mattinata sono
arrivate le attese dimissioni dell’esecutivo chieste ieri sera dal presidente Mubarak
nel suo discorso alla nazione. El Baradei, l’ex direttore generale dell’Agenzia internazionale
per l’energia Atomica e leader di uno dei movimenti di opposizione, ha chiesto le
dimissioni del capo di Stato egiziano. I “Fratelli musulmani”, invece, hanno invocato
una transizione pacifica, mentre l’Unione Africana ha espresso preoccupazione per
quanto sta avvenendo. Il sovrano saudita, Abdallah, ha dichiarato solidarietà al leader
egiziano; per l’Iran, le proteste in Egitto sono in linea con “un’ondata islamica”
che vuole la “giustizia”. Il capo della Casa Bianca, Obama, ha ribadito che gli Stati
Uniti sono al fianco del popolo egiziano, esortando il Paese ad impegnarsi per la
democrazia. Su questa presa di posizione, Eugenio Bonanata ha intervistato
Tiziano Bonazzi, docente di Storia americana all’Università di Bologna:
R. – La mia
preoccupazione è che gli Stati Uniti sono estremamente in ritardo nella loro politica
mediorientale. Si trovano di fronte a una serie di leader autocratici che vengono
duramente contestati o addirittura rovesciati; leader nei cui confronti si sono comportati
in un modo – in certi momenti – quasi servile, purché appoggiassero in termini generali
la politica americana. Di conseguenza, tanto chiare sono state le parole di Obama
quanto incerta è stata, negli ultimi anni, la politica statunitense nei confronti
di questi presidenti e di questi leader autocratici. Non vorrei che fosse un po’ tardi
per gli Stati Uniti, per parlare.
D. – Del resto, l’Egitto rappresenta
un Paese chiave soprattutto in questo periodo in cui, oltre alle rivoluzioni che hanno
caratterizzato altri Paesi del Nordafrica, c’è anche il Sudan che rappresenta una
vera e propria polveriera …
R. - Senza dubbio sì, e non credo che gli
Stati Uniti abbiano sviluppato una politica sufficientemente coerente nell’area. In
definitiva, l’antica affermazione di Jeane J. Kirkpatric, che era la rappresentante
statunitense all’Onu, inviata da Ronald Reagan, per la quale i dittatori erano sempre
buoni purché fossero “i nostri” dittatori, ha continuato a essere la politica statunitense.
Non ritengo che si tratti di una politica corretta; forse era una politica abbastanza
inevitabile per una grande potenza che deve trovare appoggi ovunque possa e in qualunque
modo possa. Insomma, ci troviamo di fronte a uno dei perenni interrogativi della politica
internazionale: gli alleati sono quelli che sono, e spesso gli alleati importanti
sono anche gli alleati che non si vorrebbero e non si dovrebbero avere.
D.
– Per altri versi, questa presa di posizione di Obama che tende la mano ai giovani
rivoluzionari che sono protagonisti della scena in Nordafrica, farà sicuramente discutere
i commentatori?
R. – Sì, senza dubbio! Ritengo che questa sia la parte
migliore del discorso di Obama. D’altronde, il presidente Obama ha visto quello che
è successo in Tunisia, dove i giovani sono riusciti a rovesciare il governo senza
buttarsi nelle braccia dei fondamentalisti: e questa, naturalmente, è la preoccupazione
principale degli Stati Uniti, e non solo la loro. Naturalmente, questa non può essere
la linea migliore. Probabilmente, potrebbe essere una linea non fortissima in un Paese
come l’Egitto che ha apparati di sicurezza estremamente più forti e coesi di quelli
che c’erano in Tunisia, però è una linea assolutamente indispensabile. Ritengo che
questo appello ai giovani - che vedo estremamente consequenziale al famoso discorso
che il presidente Obama fece in rapporto al mondo islamico in Egitto - sia la parte
che possa fornire, almeno in termini molto generali, le migliori speranze per tutti
noi.
D. - Il pericolo fondamentalista rischia di contagiare tutto il
Nordafrica, fino al Medio Oriente?
R. – Il pericolo fondamentalista
esiste. Dobbiamo però chiederci una cosa: cosa intendiamo per fondamentalismo? Se
per fondamentalismo intendiamo che i musulmani intendono restare musulmani, profondamente
musulmani, in modi magari per noi anche poco simpatici o poco consoni, bene, a questo
ci dobbiamo arrendere. Se noi riteniamo di essere una nazione cristiana e vogliamo
continuare a esserlo in modi che probabilmente non sono estremamente simpatici al
mondo musulmano, dobbiamo concedere al mondo musulmano lo stesso, identico diritto.
Se si va in questa direzione, allora non è fondamentalismo. Il fondamentalismo è quando
si arriva a un islam aggressivo, a un islam terroristico, a un islam che intende non
tanto creare una cultura propria e portarla avanti, ma attaccare e distruggere la
cultura occidentale. (bf)