Haiti: Il cardinale Sarah tra gli sfollati. Non si ferma il colera. La testimonianza
di una suora francescana
Il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, prosegue
la sua missione di solidarietà ad Haiti. Domani ricorre il primo anniversario del
devastante terremoto che ha causato 250 mila morti. Oltre un milione di persone, di
cui la metà bambini, continua a vivere nelle tende. Il porporato, che ha incontrato
il presidente René Preval, celebra oggi una Messa nel campo sfollati di Parc Acra.
Ad una situazione umanitaria che resta drammatica si aggiunge l’epidemia di colera,
che - secondo l’Organizzazione mondiale della sanità - non ha ancora raggiunto il
suo picco: da ottobre sono oltre 3.650 i morti. In questo contesto, un segno di speranza
arriva dalla periferia di Waf Jeremie, a Citè Soleil, dove una religiosa francescana,
suor Marcella, che da 5 anni vive ed opera nel Paese caraibico, è riuscita
a costruire sulle ceneri di una vecchia discarica, un villaggio di 122 case dove le
persone possono ricominciare una nuova vita. Cecilia Seppia, ha raccolto la
sua testimonianza:
R. - Quello
che abbiamo fatto noi qui a Warf Jeremie è stato innanzitutto cercare aiuti in modo
da poter coordinare una presenza degli aiuti almeno in questa zona. C’è stata proprio
una collaborazione che ha permesso oggi, a un anno dal sisma, di avere qualcosa di
estremamente bello e positivo per la gente. Siccome le opere più grandi erano un po’
coperte da aiuti di Ong, guardando la gente, ho chiesto: “ma voi di cosa avete bisogno?”.
Un signore mi ha detto: “ho bisogno di una casa”. A quel punto è partito il “village
italien” che ha visto la rimozione delle macerie e l’inizio della costruzione di case
che oggi, a distanza di un anno, sono belle, sono colorate, sono abitate, sono vive
e soprattutto hanno dato dignità alla gente. Chi abita qui si identifica con il “village
italien”, non come ghetto ma come esperienza comune positiva.
D. -
Un segno di speranza concreto e anche però una scelta coraggiosa, quella di iniziare
la ricostruzione proprio dalla periferia, cioè dal luogo più isolato, più sperduto,
povero e dimenticato di Haiti…
R. – Io, per carisma personale e francescano,
ero da 5 anni presente in questo luogo con il vescovo, mons. Serge Miot, deceduto
nel terremoto, che mi aveva chiesto di iniziare una presenza della Chiesa in questo
terribile quartiere. Così in questi 5 anni è nata una storia con questa gente. E’
normale che nel momento in cui la gente vive un dramma ancora più grande io sono lì
con loro: non mi sarebbe neanche venuto in mente di andare a costruire da altre parti.
E’ chiaro che siamo di fronte al rischio grande di poter vedere tra qualche anno tutto
tirato giù perché questa zona sarà bonificata. Noi siamo su un immondezzaio, Warf
Jeremie era l’immondezzaio di Port-au-Prince, e qualcuno mi diceva: “stai scommettendo
su una cosa che forse non durerà nel tempo”. Io ho detto: “può anche darsi che tireranno
giù tutto, ma fosse servito anche solo per dare un’ora di dignità in più a questa
gente non mi pento di quello che abbiamo fatto”.
D. – Effettivamente,
a vedere queste case c’è il segno, oltre che della ricostruzione, della resurrezione…
R.
- Sicuramente. La cosa impressionante che io visto durante quest’anno è cambiare il
volto e il cuore della gente. Questo quartiere passa per un quartiere pericoloso,
dove non si può entrare, dove ti assaltano, dove grosse Ong hanno l’ordine di uscire
da questa zona entro le tre del pomeriggio. Ma questa gente è cambiata. Non riescono
a dare un nome a questo cambiamento, ma capiscono che quello è avvenuto è il mantenimento
di quella promessa che anche il loro cuore ha e cioè la promessa di felicità per l’uomo.
D.
- Ad un anno dal sisma si tirano anche un po’ le somme, si fanno dei bilanci. La macchina
della solidarietà è entrata in moto subito, però bisogna dire che ci sono ancora delle
vere e proprie emergenze da fronteggiare. Cosa bisogna fare ancora, suor Marcella?
Quali sono i bisogni concreti della gente?
R. - I bisogni restano quelli
fondamentali, cioè intanto il fatto che dopo un anno ci sia ancora gente che vive
nelle tende che ormai cominciano a cadere a pezzi. Sicuramente il bisogno di casa,
il bisogno di acqua, di lavoro. Bisogna, comunque, trovare una soluzione a questa
gente che non è vero che non vuole fare niente, perché l’esperienza che ho io qui
è che la gente per ricostruire si è coinvolta molto. (bf)