2011-01-11 12:42:29

Haiti: Il cardinale Sarah tra gli sfollati. Non si ferma il colera. La testimonianza di una suora francescana


Il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, prosegue la sua missione di solidarietà ad Haiti. Domani ricorre il primo anniversario del devastante terremoto che ha causato 250 mila morti. Oltre un milione di persone, di cui la metà bambini, continua a vivere nelle tende. Il porporato, che ha incontrato il presidente René Preval, celebra oggi una Messa nel campo sfollati di Parc Acra. Ad una situazione umanitaria che resta drammatica si aggiunge l’epidemia di colera, che - secondo l’Organizzazione mondiale della sanità - non ha ancora raggiunto il suo picco: da ottobre sono oltre 3.650 i morti. In questo contesto, un segno di speranza arriva dalla periferia di Waf Jeremie, a Citè Soleil, dove una religiosa francescana, suor Marcella, che da 5 anni vive ed opera nel Paese caraibico, è riuscita a costruire sulle ceneri di una vecchia discarica, un villaggio di 122 case dove le persone possono ricominciare una nuova vita. Cecilia Seppia, ha raccolto la sua testimonianza:RealAudioMP3

R. - Quello che abbiamo fatto noi qui a Warf Jeremie è stato innanzitutto cercare aiuti in modo da poter coordinare una presenza degli aiuti almeno in questa zona. C’è stata proprio una collaborazione che ha permesso oggi, a un anno dal sisma, di avere qualcosa di estremamente bello e positivo per la gente. Siccome le opere più grandi erano un po’ coperte da aiuti di Ong, guardando la gente, ho chiesto: “ma voi di cosa avete bisogno?”. Un signore mi ha detto: “ho bisogno di una casa”. A quel punto è partito il “village italien” che ha visto la rimozione delle macerie e l’inizio della costruzione di case che oggi, a distanza di un anno, sono belle, sono colorate, sono abitate, sono vive e soprattutto hanno dato dignità alla gente. Chi abita qui si identifica con il “village italien”, non come ghetto ma come esperienza comune positiva.

D. - Un segno di speranza concreto e anche però una scelta coraggiosa, quella di iniziare la ricostruzione proprio dalla periferia, cioè dal luogo più isolato, più sperduto, povero e dimenticato di Haiti…

R. – Io, per carisma personale e francescano, ero da 5 anni presente in questo luogo con il vescovo, mons. Serge Miot, deceduto nel terremoto, che mi aveva chiesto di iniziare una presenza della Chiesa in questo terribile quartiere. Così in questi 5 anni è nata una storia con questa gente. E’ normale che nel momento in cui la gente vive un dramma ancora più grande io sono lì con loro: non mi sarebbe neanche venuto in mente di andare a costruire da altre parti. E’ chiaro che siamo di fronte al rischio grande di poter vedere tra qualche anno tutto tirato giù perché questa zona sarà bonificata. Noi siamo su un immondezzaio, Warf Jeremie era l’immondezzaio di Port-au-Prince, e qualcuno mi diceva: “stai scommettendo su una cosa che forse non durerà nel tempo”. Io ho detto: “può anche darsi che tireranno giù tutto, ma fosse servito anche solo per dare un’ora di dignità in più a questa gente non mi pento di quello che abbiamo fatto”.

D. – Effettivamente, a vedere queste case c’è il segno, oltre che della ricostruzione, della resurrezione…

R. - Sicuramente. La cosa impressionante che io visto durante quest’anno è cambiare il volto e il cuore della gente. Questo quartiere passa per un quartiere pericoloso, dove non si può entrare, dove ti assaltano, dove grosse Ong hanno l’ordine di uscire da questa zona entro le tre del pomeriggio. Ma questa gente è cambiata. Non riescono a dare un nome a questo cambiamento, ma capiscono che quello è avvenuto è il mantenimento di quella promessa che anche il loro cuore ha e cioè la promessa di felicità per l’uomo.

D. - Ad un anno dal sisma si tirano anche un po’ le somme, si fanno dei bilanci. La macchina della solidarietà è entrata in moto subito, però bisogna dire che ci sono ancora delle vere e proprie emergenze da fronteggiare. Cosa bisogna fare ancora, suor Marcella? Quali sono i bisogni concreti della gente?

R. - I bisogni restano quelli fondamentali, cioè intanto il fatto che dopo un anno ci sia ancora gente che vive nelle tende che ormai cominciano a cadere a pezzi. Sicuramente il bisogno di casa, il bisogno di acqua, di lavoro. Bisogna, comunque, trovare una soluzione a questa gente che non è vero che non vuole fare niente, perché l’esperienza che ho io qui è che la gente per ricostruire si è coinvolta molto. (bf)







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