Scarcerato il marocchino arrestato per la scomparsa di Yara Gambirasio
Il giudice per le indagini preliminari di Bergamo Vincenza Maccora ha disposto oggi
la scarcerazione di Mohammed Fikri, il marocchino fermato nei giorni scorsi per la
vicenda della scomparsa di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra di
cui non si hanno più notizie dal 26 novembre. Intanto, ieri è stato trasferito nel
carcere di Lamezia Terme Chafik El Ketani, il marocchino di 21 anni che domenica mattina,
a bordo di una Mercedes, ha travolto un gruppo di dieci ciclisti uccidendone sette.
E’ accusato di omicidio colposo plurimo aggravato dalla guida sotto l'effetto della
droga. I due episodi di cronaca hanno riaperto il dibattito sul rischio di xenofobia
e razzismo in Italia. Fabio Colagrande ne ha parlato con Laura Zanfrini,
docente di Sociologia delle migrazioni presso l'Università Cattolica di Milano:
R. – E’ vero
che tutte le statistiche ci dicono che c’è una sovrarappresentazione degli immigrati,
in particolare, e della componente irregolare in carcere. Tuttavia, la stragrande
maggioranza degli immigrati – marocchini compresi – non si macchia di alcun delitto,
di alcun comportamento deviante. Quindi, è sempre sbagliato poi fare generalizzazioni
per un intero gruppo o un’intera comunità, con alcune considerazioni che valgono solo
per qualcuno dei suoi componenti. In queste due vicende, però, mi sembra di poter
rilevare che gli organi di stampa hanno una grande responsabilità nell’aver fatto,
se possibile, di tutto, per fomentare intolleranza e per fomentare un certo tipo di
reazione. Se si osservavano alcune interviste fatte dalle televisioni a Brembate,
c’era veramente la ricerca a tutti i costi di una reazione di tipo intollerante. Abbiamo
avuto veramente una manifestazione di uso totalmente improprio del potere che i media
hanno di influenzare l’opinione pubblica e di dirigere gli atteggiamenti in una direzione
piuttosto che in un’altra.
D. – Professoressa Zanfrini, dal punto di
vista sociologico, qual è la molla che fa scattare la voglia di criminalizzare un
gruppo etnico straniero e addossare a lui tutta la responsabilità?
R.
– Questa tendenza alla categorizzazione, al pregiudizio, alla ricerca del capro espiatorio,
è un po’ insita nella nostra natura. I criminologi, da alcuni anni, ci restituiscono
un dato che fa riflettere. L’Italia è relativamente un Paese sicuro, se rapportato
all’esperienza di molte altre nazioni: abbiamo un tasso di omicidi che continua ad
essere tra i più bassi del mondo, un tasso di delitti consumati e denunciati che va
diminuendo nel corso degli anni. Però, contestualmente, le persone si sentono più
insicure e in queste circostanze è abbastanza naturale la ricerca di un capro espiatorio.
Gli psicologi sociali ci dicono che gli stranieri sono la categoria ideale per svolgere
questo ruolo. Al contempo, però, l’insicurezza è un sentimento reale, che va ascoltato
e va, in qualche maniera, contenuto.
D. – A questo proposito, c’è stato
chi ha detto: “La percezione che gli stranieri hanno dell’Italia è quella di un Paese
permissivo, dove la certezza della pena è inesistente”...
R. – Non solo
hanno l’impressione di un Paese permissivo, ma hanno anche l’impressione di un Paese
a bassissima cultura della legalità. Anche la criminalità, anche la devianza degli
stranieri, per esempio, è molto più diffusa in quei contesti dove la criminalità locale,
la criminalità organizzata, il lavoro nero sono diffusi. Molto meno nelle società
locali, in cui c’è più integrazione.(ap)