Profughi eritrei prigionieri nel Sinai. I Gesuiti del Centro Astalli: cosa fa l'Europa?
La comunità internazionale continua a seguire con il fiato sospeso la vicenda dei
circa 80 profughi eritrei da diverse settimane nelle mani di un gruppo di predoni
in una località del deserto del Sinai, al confine tra Egitto e Israele. Le loro condizioni
di salute si fanno di giorno in giorno sempre più gravi. Gli esuli si erano affidati
ai trafficanti per 2mila dollari pur di raggiungere il territorio israeliano: i sequestratori
ne chiedono ora il quadruplo. I fuggitivi si sono trasformati così in ostaggi, sei
dei quali sarebbero già stati uccisi. Intanto diverse associazioni umanitarie, fra
cui la Comunità di Sant’Egidio, hanno lanciato un nuovo appello alle Nazioni Unite
e alle istituzioni europee affiché intervengano per la risoluzione di questa vicenda.
Ma per quali motivi si è sviluppata questa drammatica situazione? Marco Guerra
lo ha chiesto a padre Giovanni La Manna, direttore del Centro Astalli, il servizio
dei Gesuiti per i rifugiati in Italia:
R. – Questa
situazione si è creata poiché il flusso di profughi che partiva dall’Eritrea, dall’Etiopia,
dal Sudan, attraversando il deserto e giungendo in Libia, ha poi grandi difficoltà
a compiere la traversata per venire in Europa. L’adozione dei respingimenti ha provocato
questo fenomeno - che non è il solo - e ha portato le persone a sperimentare nuove
rotte. L’episodio che stiamo commentando dimostra come la situazione, per chi è costretto
a scappare dal proprio Paese, diventa più difficile, più rischiosa e più costosa.
D. - Che cosa prevedono le nuove rotte?
R. - Le nuove
rotte sono diventate certamente più lunghe. Le persone che sono state costrette a
fuggire dai loro Paesi a causa di persecuzioni politiche o religiose, raccontano di
essersi imbarcati in Senegal e di essere sbarcati nel porto di Napoli o sulle coste
della Calabria … Il viaggio - la fuga - diventa ancora più costosa, perché bisogna
pagare il passaporto che consente di viaggiare in aereo: tant’è vero che il ministro
dell’Interno, dopo aver bloccato il flusso di Lampedusa, si diceva preoccupato del
possibile arrivo negli aeroporti. Una persona che rischia la propria vita pur di scappare
dalle persecuzioni, non si ferma sicuramente davanti ad un provvedimento come quello
dei respingimenti! Se io rischio la mia vita e la metto in gioco, e l’unica possibilità
è quella di fuggire, qualunque strada pericolosa io debba affrontare, la percorro!
Non immaginiamo nemmeno quante persone muoiano intraprendendo questo viaggio, questa
fuga, pur di cercare di salvare la propria vita.
D. - L’Europa rimane
la principale meta di chi scappa dalla povertà, dalla miseria: non è auspicabile un
approccio comune dell’Ue al tema dell’immigrazione e della tratta degli esseri umani?
R.
- Ci battiamo per affermare, ancora una volta, che l’agire per contrastare il fenomeno
è soltanto un dispendio di energie, sia a livello di risorse umane che economiche.
Tutti dovrebbero prendere coscienza del fatto che accogliere in maniera umana e dignitosa,
rispettando queste persone e i diritti stessi di queste persone rappresenti l’unica
strada per dare una risposta a questo fenomeno, riuscendo anche a far passare il messaggio
che c’è una volontà onesta di governare questo fenomeno, cercando insieme di risolvere
i problemi nei Paesi di provenienza.
D. - Al momento gli ostaggi sono
in una località del Sinai: perché le autorità egiziane non intervengono?
R.
- Un gruppo di eritrei - e questo è tristissimo dirlo! - non interessa le autorità.
Se è necessario iniziare una guerra per un pozzo di petrolio o per un qualcosa di
materiale che ha un valore, allora sì che ci si mobilita! Per le persone sembra essere
più difficile riuscire a farlo… Questo non riguarda soltanto le autorità egiziane:
anche l’Unione Europea cosa dice o cosa sta facendo? I Paesi civili e democratici,
cosa hanno detto e soprattutto cosa sono pronti a fare per salvare queste vite umane?
(mg)