L'unità dei cristiani non la facciamo noi, la fa Dio: così il Papa alla plenaria del
dicastero per l'ecumenismo
Il dialogo ecumenico ha compiuto “molta strada” in 50 anni, ma ha bisogno di ritrovare
slancio soprattutto in Occidente, senza dimenticare che l’unità dei cristiani la costruisce
Dio e non un’abile capacità di negoziato o di compromesso. Con questi concetti, Benedetto
XVI si è rivolto questa mattina in udienza alla plenaria del Pontificio Consiglio
per l’Unità dei Cristiani, che ieri ha festeggiato i 50 anni di costituzione del dicastero.
Il servizio di Alessandro De Carolis:
L’unità
dei cristiani “non la ‘facciamo noi’, la ‘fa’ Dio”. L’affermazione del Papa è il baricentro
di un discorso che, al di là di alcune riflessioni celebrative legate alla storia,
inquadra con molta chiarezza lo stato del cammino ecumenico per ciò che riguarda il
presente e il futuro prossimo. Le prime parole di Benedetto XVI sono state di riconoscenza
per la decisione con cui 50 anni fa il Beato Giovanni XXIII dava vita al Segretariato
per la Promozione per l’Unità dei Cristiani, poi trasformato da Giovanni Paolo II,
nel 1988, in Pontificio Consiglio:
“Fu un atto che costituì una pietra
miliare per il cammino ecumenico della Chiesa cattolica. Nel corso di cinquant’anni
è stata percorsa molta strada (...) Sono cinquant’anni in cui si è acquisita una conoscenza
più vera e una stima più grande con le Chiese e le Comunità ecclesiali, superando
pregiudizi sedimentati dalla storia; si è cresciuti nel dialogo teologico, ma anche
in quello della carità; si sono sviluppate varie forme di collaborazione, tra le quali,
oltre a quelle per la difesa della vita, per la salvaguardia del creato e per combattere
l’ingiustizia, importante e fruttuosa è stata quella nel campo delle traduzioni ecumeniche
della Sacra Scrittura”.
Lungo l’elenco dei nomi dei titolari del
dicastero ringraziati dal Papa per averne retto le sorti in mezzo secolo e, con loro,
tutti i membri che a vario titolo ne hanno fatto e ne fanno parte. Quindi, l’attenzione
del Pontefice si è spostata al presente, in particolare al lavoro dell’“Harvest Project”
col quale – ha detto – si intende “tracciare un primo bilancio dei dialoghi teologici”
conseguiti “con le principali Comunità ecclesiali” dal Vaticano II in qua. Con una
indicazione ben precisa rispetto “al cammino verso l’unità”:
“Oggi
alcuni pensano che tale cammino, specie in Occidente, abbia perso il suo slancio;
si avverte, allora, l’urgenza di ravvivare l’interesse ecumenico e di dare una nuova
incisività ai dialoghi. Sfide inedite, poi, si presentano: le nuove interpretazioni
antropologiche ed etiche, la formazione ecumenica delle nuove generazioni, l’ulteriore
frammentazione dello scenario ecumenico”.
“È essenziale prendere
coscienza di tali cambiamenti”, ha raccomandato Benedetto XVI, ricordando al contempo
i punti cruciali toccati oggi con gli ortodossi e con le Antiche Chiese Orientali:
con i primi, “il ruolo del Vescovo di Roma nella comunione della Chiesa”, mentre con
le altre la constatazione di aver preservato “un prezioso patrimonio comune”, nonostante
“secoli di incomprensione e di lontananza”. Proseguire su questa strada è un impegno
che resta “fermo” purché, ha osservato schiettamente il Papa, non lo si faccia pensando
sia sufficiente solo “l’abilità di negoziare”, né una “maggiore capacità di trovare
compromessi”:
“L’azione ecumenica ha un duplice movimento. Da una
parte la ricerca convinta, appassionata e tenace per trovare tutta l’unità nella verità,
per escogitare modelli di unità, per illuminare opposizioni e punti oscuri in ordine
al raggiungimento dell’unità. E questo nel necessario dialogo teologico, ma soprattutto
nella preghiera e nella penitenza, in quell’ecumenismo spirituale che costituisce
il cuore pulsante di tutto il cammino: l’unità dei cristiani è e rimane preghiera,
abita nella preghiera”.
Dall’altra parte, ha concluso Benedetto
XVI, non deve mai offuscarsi questo semplice assunto:
“L’unità non
la ‘facciamo noi’, la ‘fa’ Dio: viene dall’alto, dall’unità del Padre con il Figlio
nel dialogo di amore che è lo Spirito Santo; è un prendere parte all’unità divina.
E questo non deve far diminuire il nostro impegno (…) Alla fine, anche nel cammino
ecumenico, si tratta di lasciare a Dio quello che è unicamente suo e di esplorare,
con serietà, costanza e dedizione, quello che è nostro compito, tenendo conto che
al nostro impegno appartengono i binomi di agire e soffrire, di attività e pazienza,
di fatica e gioia”.