La comunità internazionale festeggia oggi la liberazione della dissidente birmana
Aung San Suu Kyi, avvenuta stamattina dopo 15 anni di arresti domiciliari. La donna
ha rivolto poche parole alla folla che l’acclamava davanti alla sua abitazione di
Rangoon, chiedendo loro di tornare domani al quartier generale del partito per ascoltare
il suo primo discorso ufficiale. La cronaca nel servizio di Eugenio Bonanata:
Lavorare
assieme per superare le divisioni all’interno dell’opposizione birmana. Questa l’indicazione
data da una commossa e raggiante Aung San Suu Kyi che si è affacciata all’esterno
della sua abitazione subito dopo la liberazione chiedendo di fare fronte comune contro
la giunta militare al potere. Il riferimento è alla fazione scissionista del suo Partito,
la Lega Nazionale per la Democrazia, che ha scelto di partecipare alle controverse
elezioni, boicottate invece dal resto del movimento politico e ampiamente criticate
dalla comunità internazionale. Dai militari nessun commento, mentre dalle cancellerie
di tutto il mondo si susseguono le reazioni positive. Il presidente statunitense Barak
Obama ha parlato di Aung San Suu Kyi come della “sua eroina” e ha chiesto il rilascio
di tutti gli altri oppositori politici nel Paese. A guardare al futuro anche il capo
dell’Eliseo, Sarkozy, che ha messo in guardia le autorità del Myanmar contro “qualsiasi
restrizione della libertà di movimento o di espressione” della Premio Nobel della
Pace. Da Londra, infine, il premier britannico Cameron ha definito tardiva la liberazione,
ricordando che “è diventata una parodia destinata soltanto a ridurre al silenzio il
popolo birmano”.
Ma per sapere quali sono state le reazioni del popolo
birmano dopo la liberazione di Aung San Suu Kyi, Eugenio Bonanata ha intervistato
il giornalista Stefano Vecchia, esperto di questioni asiatiche:
R. – E’,
appunto, una liberazione attesa, con un crescendo spasmodico fin da ieri pomeriggio.
In questo momento, evidentemente, oltre alla gioia dei suoi sostenitori, la Birmania
si interroga ancora di più sul proprio futuro. Teniamo presente che viene liberata
nel momento in cui il Paese si trova a subire le conseguenze delle elezioni di domenica
scorsa, guidate dal regime; di conseguenza Aung San Suu Kyi, che ha già detto che
si impegnerà ancora per tenere alte le aspettative democratiche del suo Paese, dovrà
comunque fare delle scelte.
D. – Aung San Suu Kyi, adesso che è tornata
in libertà, troverà un panorama politico decisamente molto diverso: non è più, infatti,
la sola voce dell’opposizione birmana …
R. – In un certo senso, sì:
formalmente non lo è più; anzi, formalmente si trova a guidare dal punto di vista
di leader carismatico, un partito che è stato sciolto dal potere proprio perché non
potesse partecipare alle elezioni; hanno invece partecipato fazioni dissidenti del
suo partito e altri movimenti che hanno vinto pochissimi seggi, però hanno comunque
una presenza in Parlamento. A questo punto, il suo ruolo diventerà quello di raccordo
tra un'opposizione più dura, in parte in esilio e in parte nell’illegalità formale,
e un'opposizione che ha comunque una presenza minima in Parlamento; e ci sono poi
da considerare anche le minoranze etniche e tribali che anche loro hanno alzato la
voce in questi giorni, lamentandosi di brogli e lamentandosi del fatto che i propri
candidati, che avevano vinto nei seggi dedicati alle minoranze, di fatto poi sono
stati esautorati da questo voto. Quindi la loro vittoria è stata in parte cancellata.
D.
– C’è da segnalare il silenzio totale delle autorità birmane che, in qualche modo,
ha segnato la vigilia di questa liberazione: un silenzio che preoccupa non poco la
comunità internazionale. Perché?
R. – La liberazione era attesa ieri,
in realtà. Poi, forse è stata bloccata perché probabilmente le autorità birmane hanno
cercato fino all’ultimo di barattare la sua libertà con delle concessioni, probabilmente
cercando di impedirle – in sostanza – una libertà di movimento successiva alla liberazione.
Si vedrà soltanto nelle prossime ore e nei prossimi giorni se questo tentativo ha
avuto successo o se la volontà di Aung San Suu Kyi, che si è fortemente opposta a
qualsiasi limitazione della propria attività, rimarrà sotto le pressioni del regime.(gf)
Per
tracciare un profilo politico di Aung San Suu Kyi e per conoscere meglio le tappe
della sua vita, ascoltiamo questo servizio di Salvatore Sabatino:
“Daw” vuol
dire "signora". I birmani la chiamano così, con rispettoso affetto: quella piccola
grande donna, divenuta il simbolo vivente delle aspirazioni democratiche di un intero
popolo. Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, trascorre
gli ultimi 15 anni agli arresti domiciliari; i primi in completo isolamento, assistita
da due governanti e trascorrendo gran parte del suo tempo da sola, leggendo, studiando
il francese e il giapponese e suonando il pianoforte. 65 anni, è figlia del generale
Aung San, eroe dell'indipendenza birmana, assassinato dai suoi avversari nel 1947,
sei mesi prima della fine del dominio coloniale britannico. Dopo essere stata in India
e in Gran Bretagna, dove sposa un accademico inglese, nel 1988 torna in patria per
assistere la madre gravemente ammalata, mentre nel Paese studenti e monaci buddisti
scendono in strada per chiedere la democrazia, annullata da un colpo di Stato militare,
nel 1962. Ispirandosi all’esempio della protesta pacifica del Mahatma Gandhi, padre
spirituale dell’indipendenza indiana, Suu Kyi assume presto la guida del movimento,
ma i militari rispondono con la legge marziale e la protesta è repressa con brutalità.
Più volte arrestata e rilasciata, è insignita del premio Nobel per la pace nel 1991,
un anno dopo aver vinto le elezioni, poi annullate dai militari. Una lotta non violenta,
la sua, non condivisa da tutti gli esponenti della sua Lega, tanto che un gruppo dissidente
ha formato un nuovo partito, presente alle elezioni di domenica scorsa, alle quali
Aung San Suu Kyi non ha invece potuto partecipare; elezioni stravinte dall’Usdp, la
formazione politica dei militari.