Condanna a morte di Tarek Aziz: no della Santa Sede e dell'Unione Europea
“La posizione della Chiesa cattolica sulla pena di morte è nota. Ci si augura quindi
davvero che la sentenza contro Tarek Aziz non venga eseguita, proprio per favorire
la riconciliazione e la ricostruzione della pace e della giustizia in Iraq dopo le
grandi sofferenze attraversate”. E’ quanto ha affermato ieri il direttore della Sala
Stampa vaticana, padre Federico Lombardi, dopo la sentenza di condanna a morte per
impiccagione emessa dall’Alta Corte penale di Baghdad contro l'ex vicepremier iracheno
e stretto collaboratore di Saddam Hussein. “Per quanto riguarda poi un possibile intervento
umanitario – ha sottolineato padre Lombardi - la Santa Sede è solita adoperarsi non
in forma pubblica, ma per le vie diplomatiche a sua disposizione”. Un netto “no” all’esecuzione
capitale di Tarek Aziz è giunto anche dall’Unione Europea e dai vescovi iracheni.
Massimiliano Menichetti ha intervistato Mario Marazziti, portavoce della
Comunità di Sant’Egidio promotrice della moratoria mondiale contro la pena di morte:
R. – L’Iraq
ha bisogno di abbassare il tono della violenza e di ritrovare ragioni per una riconciliazione
nazionale. La condanna a morte di Tarek Aziz rischia di essere, a distanza di anni,
la punizione di un protagonista, dove chi vince scarica su uno dei colpevoli, o ritenuti
tali nel passato, tutte le colpe. Qualunque possa essere l’accusa a Tarek Aziz, l’Iraq
ha bisogno di meno morte. In questo modo, purtroppo, la Corte, che ha deciso questa
sentenza terribile, rischia di mettere l’Iraq ancora più lontano dal percorso che
stanno seguendo i Paesi del mondo, che stanno cercando di liberarsi dalla pena capitale.
D.
– La condanna a morte nei confronti di Tarek Aziz e di altri due fedelissimi al regime,
immediatamente accende il ricordo dell’esecuzione di Saddam Hussein, nel 2006: un’uccisione
che non si riuscì a fermare. Adesso ci sono speranze diverse?
R. – Io
mi auguro che il governo iracheno, che ha la possibilità, possa commutare questa sentenza.
Dentro al governo iracheno siamo a conoscenza della presenza di ministri che non sono
favorevoli alla pena di morte. Mi sono trovato io personalmente a parlare con più
di dieci direttori di carceri iracheni che non ne possono più di morte. Io credo che
si potrebbe interpretare un nuovo corso, proprio non infliggendo questa pena capitale,
che non aggiunge nulla e non rende più sicuro il Paese. Sarebbe un’occasione, un segnale
gigantesco dato al mondo e allo stesso Paese: non bisogna più uccidere nessuno. Dobbiamo
veramente lavorare per difendere la vita in ogni circostanza e lo Stato non si può
mai abbassare al livello di chi uccide.