Accordo al G20 sulla riforma del Fondo monetario internazionale
Scarso progresso sul fronte della cosiddetta guerra dei cambi in seno al G20 finanziario
che si è concluso ieri in Corea del Sud. Il vertice ha tuttavia raggiunto un accordo
sulla riforma della governance del Fondo monetario internazionale, che prevede
un peso maggiore delle economie emergenti negli organi direttivi dell’istituzione.
Sul significato di questa intesa Eugenio Bonanata ha intervistato Riccardo
Moro, docente di politiche dello sviluppo alla Statale di Milano e direttore del
“Progetto Bridges”:
R. – Da un
lato sicuramente vuol dire che i Paesi emergenti riescono a contare un po’ di più
perché poi alla fine è il Board che decide e se nel Board c’è una persona in più dei
Paesi emergenti, la presenza proprio alle riunioni conta. Ma credo che da un punto
di vista geopolitico segni questo cambiamento, in atto da diverso tempo, e che la
crisi finanziaria ha reso più evidente, cioè un ruolo più importante di Paesi come,
certamente, la Cina ma anche il Brasile, l’India, ma non solo, il Sudafrica, altri
Paesi dell’America Latina e dell’Asia, in un contesto internazionale in cui una volta
i Paesi europei insieme ad America e Giappone decidevano tutto. La presidenza Obama
in questo è una presidenza utile perché con la precedente amministrazione americana
un passaggio di questo tipo sarebbe stato molto più faticoso - io credo - nei consessi
internazionali.
D. – Professore, che cosa è successo sul fronte dei
tassi di cambio? Altro tema centrale del vertice …
R. – E’ successo
che nel comunicato finale è stata inserita una riga un po’ più esigente nei confronti
della Cina, anche se la Cina non viene citata. E’ stato definito un auspicio a non
eccedere sia in termini di esportazione che di importazione. Non è una decisione vera
e propria. Segna il permanere di questa tensione tra cinesi e il resto del mondo per
un riequilibrio un po’ più tranquillo dei propri ruoli commerciali. Non sappiamo come
andrà a finire, sembra però segnare in qualche modo un lieve arretramento della Cina
che sembra accettare l’idea di doversi rassegnare prima o poi a rivalutare la propria
moneta.
D. – Proprio su questo fronte premono da sempre, più di tutti,
gli americani?
R. – In questo momento la Cina con una moneta così bassa
vende molto negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti si trovano così spiazzati. Peraltro
la Cina incassa dollari e con questi dollari acquista i titoli pubblici americani.
Gli americani hanno un fortissimo debito pubblico e gli occorre assolutamente qualcuno
che lo finanzi. E’, però, un abbraccio mortale nel senso che non può andare avanti
con un continuo aumento dell’export cinese verso gli Stati Uniti perché gli Stati
Uniti hanno bisogno di uscire dalla crisi con una ripresa e significa comprare più
americano e meno cinese. Questo gli permetterebbe di autofinanziarsi il debito. Peraltro
i cinesi non possono permettersi una guerra commerciale con gli Stati Uniti perché
così esposti verso l’estero si troverebbero in grave crisi economica loro stessi.
D.
– Al vertice si è ribadito comunque che la questione dei cambi rappresenta uno dei
rischi maggiori per la ripresa mondiale, lo ha detto Mario Draghi …
R.
– Questo è corretto perché le variazioni eccessive nell’andamento dei cambi comportano
dei rischi di forte vulnerabilità. Una moneta che si svaluti o che si apprezzi troppo
velocemente determina l’impossibilità di approvvigionarsi all’estero dei materiali,
piuttosto che non di vendere all’estero i propri prodotti, e, dunque, di usufruirne
in termini di reddito e di occupazione da parte del Paese che subisca queste variazioni
monetarie.