Il patriarca Twal al Sinodo: la presenza dei pellegrini mostra che la Terra Santa
non è abbandonata
Circoli minori a porte chiuse, stamani, al Sinodo per il Medio Oriente, in corso in
Vaticano sul tema della “comunione e testimonianza”. In programma, lo studio degli
emendamenti collettivi ai documenti conclusivi. Nel pomeriggio, invece, verrà presentato
e messo ai voti il Messaggio finale dell’Assemblea. Intanto nel corso delle due settimane
di lavori i vescovi hanno sottolineato, tra le altre priorità per la Chiesa in Medio
Oriente, la necessità di sostenere la pastorale delle vocazioni e quella di incoraggiare
la formazione dei seminaristi per le missioni. A tale proposito il vescovo di Gibuti
e amministratore apostolico di Mogadiscio, mons. Giorgio Bertin, parlando di
comunione ecclesiale ha evidenziato l’importanza di una vera e propria “condivisione
di beni” all’interno della Chiesa, proponendo la creazione di una “banca di sacerdoti
senza frontiera”, pronti ad essere inviati in situazioni di emergenza. Ascoltiamo
lo stesso mons. Bertin al microfono di Paolo Ondarza:
R. - Ci sono
delle situazioni improvvise e drammatiche a cui bisogna rispondere immediatamente
e allora ci deve essere una certa disponibilità. Questo è l’aspetto che potremmo definire
un po’ debole, perché si corre il rischio di avere sacerdoti che non hanno una grande
preparazione.
D. - Che cosa manca oggi - dal suo punto di vista - nella
formazione dei sacerdoti?
R. - Io ho raccontato la storia dei primi
missionari in Somalia, che sono andati senza preparazione, e ho anche detto che la
formazione si fa, ma che è importante spingere affinché ci sia spirito di generosità
e di sacrificio. Queste sono per me due parole molto importanti.
D.
- Il suo auspicio per questo Sinodo?
R. - Io direi che l’aspetto comunione
deve diventare veramente più effettivo. Comunione e quindi anche comunione di beni:
io ho fatto la proposta perché il Medio Oriente e così anche il resto della Chiesa,
pensi a formare una banca di sacerdoti per diocesi, per situazioni particolarmente
difficili. E’ un invito che ho fatto anche al Medio Oriente di contribuire e, quindi,
di aprirsi di più allo spirito missionario: condividiamo di più, cerchiamo di vivere
veramente meglio questa comunione che esiste fra di noi, questa fratellanza, ma viviamo
con maggior concretezza.
Visitare la Terra Santa per incoraggiare i cristiani
a restare nei luoghi della predicazione del Vangelo, funestati da anni di violenze.
Per contrastare la fuga di intere famiglie cristiane i Padri Sinodali ribadiscono
l’importanza dei pellegrinaggi. La presenza dei pellegrini – ha detto il patriarca
di Gerusalemme dei Latini Fouad Twal - è vitale per la Chiesa in Medio Oriente.
Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. - Francamente
la loro presenza significa che la mia e la vostra comunità cristiana che sta in Terra
Santa non è abbandonata, non è dimenticata. La vostra presenza per noi significa molto.
D.
- Lei ha detto che va evitato che la Terra Santa diventi un “museo a cielo aperto”…
R.
- Non lo diventerà mai, mai. Anche se lo ho detto, non lo diventerà mai. C’è Qualcuno
che ha detto: “Non abbiate paura, sono con voi”. Dobbiamo ritornare a prendere seriamente
queste parole del Signore: se Lui è con noi, non dobbiamo avere paura e non dobbiamo
avere nessun complesso. Quindi andiamo avanti, preghiamo, lavoriamo, accogliamo, amiamo
e tutto senza paura, perché c’è Lui. La nostra fiducia non viene dalle circostanze
geopolitiche che sono drammatiche, che sono purtroppo ancora peggio di prima. Noi
siamo là: è una Chiesa del Calvario, ma - allo stesso tempo - è anche una Chiesa della
speranza, della gioia di vivere, di lavorare, di accogliere. E’ una Chiesa della Resurrezione!
D.
- E’ con questo stato d’animo che vivono i cristiani in Terra Santa oggi?
R.
- Magari tutti avessero questo sentimento! Questo è il mio discorso, il mio sentimento.
Alcuni sono disperati e optano per emigrare, per lasciare questi posti. Questa è la
nostra posizione e deve essere la nostra posizione quella di dare fiducia, di dare
speranza, di dare gioia di vivere.
D. - Il conflitto israelo-palestinese
è tra le principali cause delle sofferenze dei cristiani in Terra Santa?
R.
- E' solamente il conflitto, nient’altro. E’ un conflitto, che non finisce più. Pare
che la gente non abbia alcuna voglia di finirla con questo conflitto; pare che ci
sia gente che ha più paura della pace che non della guerra e alimentano la paura.
Da 60 anni non abbiamo più goduto di una vita normale. Non cerchiamo niente di speciale:
solo svegliarci la mattina e andare al lavoro, come andare all’ospedale, andare all’Università
o andare al Santo Sepolcro: non possono neanche arrivare fin là! Non è una vita normale!