2010-10-18 14:00:22

Le riflessioni dei Padri sinodali: un evento provvidenziale perché la diversità diventi ricchezza nella comunione


Il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente è giunto a metà dei lavori. Oggi la “Relazione dopo la discussione”, scaturita dai vari interventi pronunciati dai Padri Sinodali la scorsa settimana, ha fornito una fotografia della multiforme realtà della Chiesa nella regione. Paolo Ondarza ha raccolto la riflessione di Nerses Bedros XIX Tarmouni, patriarca di Cilicia e arcivescovo di Bairut degli Armeni in Libano.RealAudioMP3

R. – Io penso che per tutti questo Sinodo sia un intervento provvidenziale per il Medio Oriente e anche un’opportunità perché ognuno dei Padri svuoti un po’ il suo cuore dai problemi che ha e per i quali non ha potuto ancora trovare soluzione. In generale, bisogna dire che il confronto è stato molto positivo perché, nel complesso, c’è una sincerità molto forte; abbiamo ascoltato tante idee, che non sempre sono uguali per tutti. Tutto questo da un’idea generale del contesto e dell’ambiente in cui viviamo. Importante tra i vari argomenti affrontati quello dell’’emigrazione causata dall’instabilità della situazione politica che ha influito sulla vita economica, sociale e famigliare.

D. – Faceva riferimento alla pluralità di voci che si sono succedute qui al Sinodo. Una pluralità che ha per obiettivo la comunione. Crede che l’atmosfera di questi giorni possa essere un buon punto di partenza per il futuro?

R. – L’obbiettivo è quello di vivere come i cristiani dei primi secoli e i primi cristiani erano un cuore solo e un’anima sola: mettevano tutto in comune, perché se non c’è questo fondamento tutte il resto non va bene e ogni impegno non produce il risultato sperato.

D. – La diversità delle singole Chiese non dev’essere considerata - è stato detto - un ostacolo ma anzi una ricchezza …

R. – Certo, se alla base c’è uno spirito di collaborazione e di fede. Sicuramente ogni Chiesa col suo patrimonio liturgico è una ricchezza per tutti quanti, ma molto spesso c’è il problema della lingua. Per esempio, soltanto quelli che sono di rito siriaco leggono il Siriaco; e lo stesso vale per il rito armeno. Anche le traduzioni dei testi creano un po’ di difficoltà, ma sono sicuro che dopo questo Sinodo ci sarà più collaborazione.

Nei giorni scorsi i Padri sinodali hanno levato un appello perché il silenzio non scenda sulla difficile situazione della Chiesa in Turchia. La storia del Paese, è stato detto, è stata scritta anche con il sangue di vittime come don Andrea Santoro, sacerdote Fidei donum, e di mons. Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia. Paolo Ondarza ha chiesto a mons. Ruggero Franceschini, presidente della Conferenza Episcopale di Turchia, di parlarci della piccolissima presenza cristiana in questo Paese:RealAudioMP3

R. - Non si tratta proprio di piccolissime presenze o meglio piccolissime esternamente. Lei sappia che esistono tanti cristiani che vengono chiamati criptocristiani o cristiani nascosti che non vogliono assolutamente compromettere la loro famiglia, il loro lavoro, la loro posizione sociale esternando la religione e quando lo fanno rischiano grosso. La comunità è, quindi, leggermente più grande di quello che appare.

D. - Ma c’è una parte della popolazione in Turchia con cui si può dialogare per costruire un cammino di convivenza pacifica …

R. - Soprattutto nella mia zona, nella zona di Smirne, c’è una laicità positiva che riconosce i valori dell’altro e che cerca insieme di arrivare a traguardi comuni. Noi, per esempio, lavoriamo con la Caritas insieme con i musulmani per cercare di migliorare le condizioni di vita soprattutto dei bambini autistici e degli anziani. Su questo ci troviamo molto uniti. Per quanto riguarda il rispetto della religione dell’altro - io sono arrivato in Turchia una trentina di anni fa - certo le situazioni erano molto diverse. Adesso c’è certamente un rispetto maggiore ma nello stesso tempo, al contrario, anche una guerra maggiore.

D. - Il suo auspicio per questo Sinodo, qual è?

R. - Che sia una vera presa di coscienza del fatto che formiamo un popolo unico, che ha per ideale la sequela di Cristo, sia pure con riti e diversità che sono frutto anche della cultura locale.







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