Intervento di Mons. Vincent LANDEL, S.C.I. di Béth., Arcivescovo di Rabat (MAROCCO)
Partendo dall’esperienza del Marocco (25.000 cattolici di 90 nazionalità su una popolazione
di 33 milioni di musulmani), i cristiani sono tutti degli stranieri e non possono
essere cittadini del paese, anche se esiste la “libertà di culto”. Questo fa sì che
essi partecipino alla vita economica, culturale e sociale del paese, ma che non possano
assolutamente intervenire nei meccanismi delle decisioni politiche nazionali o internazionali.
La nostra responsabilità come Chiesa è quella di aiutare questi stranieri di passaggio
a capire che essi sono in prima linea nel dialogo della vita con i musulmani. Nelle
aziende in cui lavorano, nelle università o nelle scuole, essi sono individui in mezzo
a una moltitudine mussulmana. - Essi sono i testimoni di un Amore più grande; -
essi sono i testimoni di questo Dio che rivolge uno “sguardo amoroso” agli uomini
qualunque sia la loro cultura o la loro religione. La loro testimonianza di vita
è fondamentale per la vita della Chiesa. Un amico musulmano mi diceva un giorno “la
vostra presenza, benché minima, è fondamentale per farci capire che ci sono strade
diverse che conducono a Dio”. La nostra responsabilità come Chiesa è quella di
aiutare questi cristiani ad accettare di entrare, con i loro amici musulmani, in un’ottica
di accoglienza della differenza dell’altro, di incontro in spirito di totale gratuità,
di umile atteggiamento di fiducia verso la diversità dell’altro. Ciò non è sempre
facilmente accettabile nel mondo dell’efficienza, ma è questo atteggiamento che ci
permette di continuare a vivere in questo paese in pace e serenità anche se talvolta
emergono delle tensioni. I cristiani constatano con gioia che a contatto con l’Islam
la loro fede cristiana si purifica, si approfondisce. La nostra responsabilità
come Chiesa è quella di aiutare questi cristiani di passaggio a capire meglio che
si può vivere la propria fede cristiana con gioia e passione, in una società totalmente
musulmana. Questo li aiuterà a tornare nel proprio paese con uno sguardo nuovo nei
confronti dei musulmani che incontreranno e ad abbattere degli “apriorismi” che rischiano
di far marcire il mondo. La nostra responsabilità come Chiesa è quella di aiutare
questi cristiani a capire di essere dei “segni” e, come ci ha ricordato Papa Giovanni
Paolo II in occasione di una visita ad limina, “non viene chiesto a un segno di fare
numero ma di significare qualcosa”. La nostra Chiesa è “segno” per la comunione
che cerchiamo di vivere, nonostante la diversità delle nostre culture e delle nostre
nazionalità. Benché i cristiani originari del Medio Oriente siano pochi, il nostro
“segno” sarebbe ancora più forte se avessimo nel nostro presbiterio uno o due sacerdoti
arabi. Una simile presenza, lungi da ogni proselitismo, sarebbe un grande arricchimento
per la Chiesa.