L’impegno per l’Africa di Paolo Marelli, medico del Coe, il Centro Orientamento
Educativo
Quarant’anni di attività al servizio dei più deboli: è il traguardo raggiunto dal
Coe, il Centro Orientamento educativo. Una delle iniziative più significative del
sodalizio è l’Ospedale a Mbalmayo in Camerun. Il direttore della struttura ospedaliera,
Paolo Marelli, racconta – al microfono di Amedeo Aiello – il suo impegno
decennale, prima in Burundi e poi nella Zambia, al servizio dei popoli africani:
R. – La mia
attività di medico chirurgo in Africa è cominciata più di 30 anni fa quando – giovane
medico – ho pensato che fosse utile per me e per gli altri di dedicare la mia vita
e la mia professionalità ai poveri e ho identificato nei malati i poveri tra i poveri:
la mancanza di salute fisica, la malattia ti fa sentire più povero ancora, ti fa sentire
più solo, ti fa sentire più bisognoso. Il lavorare con i malati sembrava che potesse
essere un modo tangibile, concreto, reale, utile per vivere una vita piena e gratificante.
La prima esperienza è stata quella del Burundi dove sono stato 21 anni: è stata un’esperienza
molto ricca. Purtroppo, la guerra e la situazione politica del Burundi ci hanno obbligato
ad interrompere l’esperienza. La seconda esperienza lunga l’ho fatta in Zambia, dove
la diocesi di Milano mi ha chiesto di recarmi per riorganizzare un po’ l’ospedale
che era stato voluto anni prima da Paolo VI quando era cardinale arcivescovo dell’arcidiocesi
di Milano.
D. – Quali sono, secondo lei, le principali cause dei problemi
medico-sanitari nei Paesi dell’Africa in cui ha operato?
R. – Prima
di tutto, un problema che non è sanitario in sé e per sé, e cioè la povertà. E poi,
la mala gestione. Ci sono poche risorse e queste poche risorse non sono ben distribuite:
è praticamente quello che si rileva anche nei Paesi ricchi, solo che nei Paesi ricchi
essendoci tante risorse ed essendoci così tanti soldi, anche se la gestione non è
ottimale – a volte non lo è affatto – non si nota e non si penalizzano gli utilizzatori
di un certo servizio. Quando la torta è piccola, quando ci sono poche risorse, anche
una gestione non ottimale fa sì che tutto cada, fa sì che – purtroppo – le persone
siano penalizzate.
D. – Quali sono le difficoltà più evidenti per esercitare
la sua professione nei Paesi in via di sviluppo?
R. – La solitudine:
sto parlando della solitudine professionale. In tutti gli ospedali, anche i più piccoli
dei Paesi cosiddetti “sviluppati”, c’è tutto uno stuolo di operatori sanitari, di
medici, di specialisti che possono consultarsi quando lo vogliono e quando ne sentono
la necessità. In Africa, il medico, l’infermiere spesso è solo e il fatto di non potersi
confrontare con dei colleghi è veramente qualcosa che se si fa il lavoro del medico
in modo coscienzioso, è veramente la difficoltà che pesa maggiormente. L’avvento della
telemedicina, a cui mi sono dedicato molto in Zambia e a cui spero di potermi dedicare
anche qui, in Camerun, potrebbe attenuare un po’ questa difficoltà. Avere, in mezzo
alla foresta equatoriale, come ad esempio qui in Camerun, la presenza di specialisti
– se non fisica, virtuale – potrebbe veramente togliere me – e così come me, altri
operatori sanitari – da questa solitudine professionale che pesa molto e che incide
sull’efficacia della medicina e delle terapie che proponiamo ai nostri malati.
D.
– Cosa possono fare, dunque, secondo lei, i Paesi dell’Occidente per aiutare l’Africa
a combattere le malattie che ogni giorno in silenzio causano la morte di migliaia
di persone?
R. – L’importante per i Paesi europei è rendersi conto che
occorre cambiare lo stile di vita, che occorre cambiare la mentalità; occorre rendersi
conto che non è più accettabile che ci siano delle nazioni evolute che spendono di
più in cibo per cani e gatti di quanto non sia il bilancio annuale del Ministero della
sanità di diversi Paesi in via di sviluppo. Non è accettabile che ci sia un Paese
– che non nomino – che spende in prodotti dimagranti per la propria popolazione più
del doppio di quanto spenda il Ministero della salute del Cameroun per la salute di
tutta la sua popolazione. E’ un cambiamento di mentalità, è un cambiamento di stile
di vita, è un cambiamento che se l’Occidente non lo farà di sua spontanea volontà,
sarà obbligato a farlo appunto perché non ci sono barriere che dividono i neri dai
bianchi, gli africani dagli europei. Abitiamo tutti nella stessa casa e quindi quello
che c’è – e che è ancora molto, per ora – deve essere distribuito equamente tra tutti
gli abitanti. (Montaggio a cura di Maria Brigini)