Il priore di Bose sul Convegno di spiritualità ortodossa: c'è una solitudine buona
che ci mette in comunione con Dio
L’ascesi come strada che libera l’anima dai “rumori” che ostacolano la comunione con
Dio. E’ questa un’esperienza tipica del monachesimo che da ieri è uno dei temi portanti
al 18.mo Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, ospitato fino
a sabato prossimo al Monastero di Bose. Il tema, “Comunione e solitudine” - oggetto
di messaggi da parte del Papa e dei Patriarchi ortodossi Bartolomeo I e Kirill - è
stato affrontato nella prolusione dal priore di Bose, Enzo Bianchi, e sarà
motivo di riflessione per i teologi e gli studiosi ortodossi, cattolici e protestanti
presenti ai lavori. Alessandro De Carolis ha chiesto allo stesso priore di
Bose in che modo il significato della solitudine si sposi con quello della comunione:
R. – La solitudine
può essere buona soltanto se predispone alla comunione, perché il fine della vita
cristiana è la comunione con Dio e con i fratelli e tutto ciò che contraddice la comunione
è ciò che, in qualche misura, noi chiamiamo “male”, chiamiamo “peccato”. Allora, la
solitudine può anche essere qualche volta una solitudine negativa: la solitudine che
ci viene portata dalla storia, imposta dalla nostra vita, la solitudine come estraneità
rispetto agli altri e la solitudine terribile, oggi, del vuoto esistenziale, che molti,
soprattutto le nuove generazioni, soffrono. In realtà, si deve trovare invece una
solitudine positiva, buona, una solitudine abitata da Dio. Non c’è solitudine buona
che non prepari o predisponga alla comunione con Dio e con i fratelli.
D.
– A proposito di questa solitudine "buona" che apre a Dio, il Patriarca ortodosso
russo Kyrill sottolinea, tra l’altro, nel suo messaggio l’importanza del "benefico
influsso degli asceti cristiani ai nostri giorni". In sostanza, è questa l’esperienza
che offre la comunità di Bose...
R. – Questa è la nostra volontà: di
far vedere come nella solitudine del celibato, come nella solitudine di una vita un
po’ in disparte, una vita monastica, possa essere dato agli uomini un cammino di comunione,
perché il monaco nella sua solitudine, in realtà, tende alla comunione con tutti –
con Dio, con i fratelli, con il Creato – e predispone tutto perché questa comunione
sia qualcosa di reale, di concreto, oltre che essere un grande impegno spirituale.
D.
– L’allontanamento dal mondo, tipico di un monaco, spaventa il nostro mondo del chiasso,
quello delle troppe voci che alla fine diventano quasi un unico rumore. Come si insegna
a recuperare la dimensione del silenzio interiore?
R. – Innanzitutto,
occorre assolutamente che uno decida dentro di sé di fare l’opzione contro ogni dissipazione,
contro ogni intontimento, contro quel divertissement pascaliano che impedisce
di prendere coscienza di sé. Questo è il primo passo. Si richiede quindi un rifugio
dalla chiacchiera, un rifugio dall’essere agitati. Poi, c’è il secondo momento, dove
l’abitare con sé non significa affatto una dimensione egoistica, ma si tratta di scendere
alle proprie profondità e di arrivare a quel punto della coscienza dove possiamo sentire
la voce di Dio. Il terzo momento è, allora, l'abitare questa solitudine che ci siamo
dati, questo silenzio, con la presenza di Dio, con la presenza dei fratelli.
D.
– Che cosa può insegnare la spiritualità ortodossa, alla quale il Convegno è dedicato,
alla comunità cristiana occidentale?
R. – Soprattutto, direi, questa
presenza della vita monastica nella Chiesa, questa testimonianza silenziosa ma radicale,
questo poter far vedere che Dio è effettivamente Colui che può essere oggetto del
nostro amore, della nostra ricerca. Io credo che questo, la grande tradizione del
monachesimo orientale ce lo ricordi e ce lo possa anche insegnare.