2010-09-09 15:12:53

Il priore di Bose sul Convegno di spiritualità ortodossa: c'è una solitudine buona che ci mette in comunione con Dio


L’ascesi come strada che libera l’anima dai “rumori” che ostacolano la comunione con Dio. E’ questa un’esperienza tipica del monachesimo che da ieri è uno dei temi portanti al 18.mo Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, ospitato fino a sabato prossimo al Monastero di Bose. Il tema, “Comunione e solitudine” - oggetto di messaggi da parte del Papa e dei Patriarchi ortodossi Bartolomeo I e Kirill - è stato affrontato nella prolusione dal priore di Bose, Enzo Bianchi, e sarà motivo di riflessione per i teologi e gli studiosi ortodossi, cattolici e protestanti presenti ai lavori. Alessandro De Carolis ha chiesto allo stesso priore di Bose in che modo il significato della solitudine si sposi con quello della comunione:RealAudioMP3

R. – La solitudine può essere buona soltanto se predispone alla comunione, perché il fine della vita cristiana è la comunione con Dio e con i fratelli e tutto ciò che contraddice la comunione è ciò che, in qualche misura, noi chiamiamo “male”, chiamiamo “peccato”. Allora, la solitudine può anche essere qualche volta una solitudine negativa: la solitudine che ci viene portata dalla storia, imposta dalla nostra vita, la solitudine come estraneità rispetto agli altri e la solitudine terribile, oggi, del vuoto esistenziale, che molti, soprattutto le nuove generazioni, soffrono. In realtà, si deve trovare invece una solitudine positiva, buona, una solitudine abitata da Dio. Non c’è solitudine buona che non prepari o predisponga alla comunione con Dio e con i fratelli.

D. – A proposito di questa solitudine "buona" che apre a Dio, il Patriarca ortodosso russo Kyrill sottolinea, tra l’altro, nel suo messaggio l’importanza del "benefico influsso degli asceti cristiani ai nostri giorni". In sostanza, è questa l’esperienza che offre la comunità di Bose...

R. – Questa è la nostra volontà: di far vedere come nella solitudine del celibato, come nella solitudine di una vita un po’ in disparte, una vita monastica, possa essere dato agli uomini un cammino di comunione, perché il monaco nella sua solitudine, in realtà, tende alla comunione con tutti – con Dio, con i fratelli, con il Creato – e predispone tutto perché questa comunione sia qualcosa di reale, di concreto, oltre che essere un grande impegno spirituale.

D. – L’allontanamento dal mondo, tipico di un monaco, spaventa il nostro mondo del chiasso, quello delle troppe voci che alla fine diventano quasi un unico rumore. Come si insegna a recuperare la dimensione del silenzio interiore?

R. – Innanzitutto, occorre assolutamente che uno decida dentro di sé di fare l’opzione contro ogni dissipazione, contro ogni intontimento, contro quel divertissement pascaliano che impedisce di prendere coscienza di sé. Questo è il primo passo. Si richiede quindi un rifugio dalla chiacchiera, un rifugio dall’essere agitati. Poi, c’è il secondo momento, dove l’abitare con sé non significa affatto una dimensione egoistica, ma si tratta di scendere alle proprie profondità e di arrivare a quel punto della coscienza dove possiamo sentire la voce di Dio. Il terzo momento è, allora, l'abitare questa solitudine che ci siamo dati, questo silenzio, con la presenza di Dio, con la presenza dei fratelli.

D. – Che cosa può insegnare la spiritualità ortodossa, alla quale il Convegno è dedicato, alla comunità cristiana occidentale?

R. – Soprattutto, direi, questa presenza della vita monastica nella Chiesa, questa testimonianza silenziosa ma radicale, questo poter far vedere che Dio è effettivamente Colui che può essere oggetto del nostro amore, della nostra ricerca. Io credo che questo, la grande tradizione del monachesimo orientale ce lo ricordi e ce lo possa anche insegnare.







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