Al Festival di Venezia commozione per il film del regista cinese Wang Bing
Al Festival del cinema di Venezia un film sorpresa in concorso stupisce e commuove
per il suo rigore e realismo: si tratta di “Le fossé” (Il fossato), del regista cinese
Wang Bing, crudissima storia di dolorose vite umane nella Cina sul finire degli anni
’50. Attesa grande, oggi, per il quarto e ultimo film italiano in concorso, Saverio
Costanzo con la sua trasposizione cinematografica del romanzo di Paolo Giordano “La
solitudine dei numeri primi”. Il servizio dalla città lagunare di Luca Pellegrini.
Orribili
solitudini dettate dal potere, terribili solitudini imposte dalla vita. Le prime vere,
le seconde immaginate. Entrambe di irreparabile tragicità. A sorpresa, e come molte
sorprese abbagliante nella sua inattesa forza cinematografica e storica, entra in
concorso Le fossé di Wang Bing, alla sua prima vera prova nel lungometraggio, dopo
essere stato scoperto come uno dei documentaristi cinesi più rigorosi ed espressivi.
Nell’estremità insopportabile della natura ostile – è il Deserto del Gobi – intellettuali
deportati dal governo cinese alla fine degli anni ’50 vivono come topi nelle condizioni
umane spinte ai limiti estremi della sopravvivenza e in attesa della morte. Il dialogo
è rarefatto come l’aria, le immagini talvolta insopportabili come la sussistenza dei
disperati, così avara e parca di cibo da rendere possibili gesti insopportabili. La
nitidezza austera e tragica di questo film cauterizza la denuncia politica e sociale
che soltanto sottintende, che non viene mai detta, soltanto mostrata o intuita. Davanti
al rigore disumano del sistema, infatti, vince la pietà, vince l’umanità affranta
che sopporta, la condivisione della sofferenza nei piccoli gesti o nell’ascolto delle
sventure, il muto scorrere della storia che spesso è avara di felicità, di giustizia
o di semplice normalità. Storia che, invece, scorre in un fluttuante e quasi onirico
zigzagare, in ossequio a ciò che nel romanzo era possibile e al cinema diventa faticosissimo,
nella trasposizione sullo schermo del fortunato romanzo di Giordano. Il film lo è
molto meno: difficile raccontare “i corpi - come dice il regista Saverio Costanzo
- e il loro stravolgimento nel corso di vent’anni” e insieme raccontare gli amari
destini delle esistenze di Alice e Mattia alla deriva, sfregiati anche nell’anima
malata, e calarli in una realtà sentimentalmente orrorifica che sembra più un escamotage
che necessità, così come le musiche acide di Mike Patton. Il volto di Alba Rohrwacher
è perfetto, troppo perfetto, così come quello di Luca Marinelli. Si stenta a credere
a questi numeri primi che cercano una spiaggia di salvezza nel deambulare in una Milano
bene, si soffre assai più e compatisce con i numeri ignoti che vagano senza sapere
in una Cina che non conoscono più.