Proiettato al Festival di Venezia l'intenso film di Celestini "La pecora nera" sul
disagio mentale
Dopo monologo teatrale e libro, Ascanio Celestini porta la sua “Pecora nera” sugli
schermi firmando il suo primo lungometraggio, coraggiosamente inserito in concorso
a Venezia, “non è un film di denuncia – come tiene a precisare il regista -, ma il
racconto di un disagio, di uno spaesamento, di una crisi della coscienza”. Dieci minuti
di applausi per lui ieri sera in Sala Grande alla proiezione ufficiale, mentre oggi
viene presentato, sempre in concorso, il deludente “Somewhere” di Sofia Coppola, che
della deriva e i tormenti di un attore segue i passi e le cadute. Il servizio è di
Luca Pellegrini:
Ecco, dunque,
la storia di due disagi diversi. In America un attore di fama, che vive “da qualche
parte”, sporca le sue giornate in una dissipazione esistenziale abbastanza comune
tra quella specie. “Somewhere”, l’atteso film di Sofia Coppola, non racconta nulla
di nuovo, nella sua irritante monotonia: crisi di vocazione, rapporti slabbrati, famiglia
sfasciata, drink e autografi, strada e tramonti, per dirci, in modo noiosissimo, come
i tempi moderni possono assuefarsi all’immobilità dello spirito. Film piuttosto inutile,
dunque, mentre utilissime diventano le filastrocche con le quali Ascanio Celestini
recita la follia. Sullo schermo è arrivato, infatti, il suo racconto del disagio mentale
con La pecora nera: strizzando l’occhio allo stile iconoclasta di Ciprì e Maresco,
ossia spargendo sulfuree dosi di ironia surreale e affabulazione istrionica, finisce,
infatti, in un manicomio chiamato “il condominio dei santi” diretto dal dottore, “che
dei santi è il più santo di tutti”. Lì, in quel luogo sospeso e lugubre, come lo sono
stati tutti i manicomi raccontati al cinema, ma anche molti di quelli in funzione
nel vero, dove la tensione è incuneata nei silenzi che possono esplodere, nei gesti
che possono ferire, fa il suo apprendistato Nicola, il gene della follia in famiglia,
che ci accompagna nel capitolo più remoto del film ambientato negli “anni ’60, i favolosi
anni ‘60”, che qui di favoloso hanno soltanto l’eco misero e storpiato – una mezza
dozzina di uova, un gelato, un costume consunto per la festa parrocchiale – di un
benessere vissuto da altri. Nicola cresce in una apnea permanente che lo distanzia
dalla realtà, ma non dall’affetto di una ragazzina poi ritrovata, da adulto, nell’anonimato
di un supermercato di periferia che è il luogo dei folli dell’età del consumismo e
della pubblicità. Lì avvengono le sue uniche, sporadiche visite all’esterno – quando
del “manicomio elettrico” ne è divenuto ospite fisso – tentando inutilmente rapporti
interpersonali border line. La fase adulta della sua vita incontra anche la puerile
e sincera pietà delle suore che lo accudiscono, la capacità di ascolto di un amico
folle come lui, il desiderio di un amore che non può esistere. Le parole e i gesti
di Celestini possono anche irritare, in questa loro continua ripetizione originata
da un voluto elettro-shock artistico, ma l’umanità che promana dagli sguardi dei suoi
matti è pura, disarmante, vera e tale non tanto da chiedere commiserazione, quanto
attenzione. Ciò che sicuramente loro desiderano e noi dovremmo impegnarci a dare.