Iraq. Il vescovo di Kirkuk: rischio di guerra civile
L'aumento, dopo il ritiro delle truppe combattenti Usa dal Paese, del numero degli
attentati contro le milizie irachene, che mostrano tutta la loro inadeguatezza a mantenere
la sicurezza, preoccupa l'episcopato iracheno che continua a denunciare il rischio
caos. ''Il ritiro Usa aumenta la paura degli iracheni per una guerra civile - spiega
all'Agenzia Sir l'arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako – che potrebbe portare la
divisione etnica e religiosa del Paese". Per mons. Sako, se da una parte ''ora c'è
tanta libertà”, dall'altra è lento il movimento verso la democrazia''. Intanto, questa
mattina sei miliziani anti al Qaida sono stati uccisi e altri due feriti in un attacco
condotto da uomini armati a nord est di Baghdad. Sulla difficile situazione irachena
Stefano Leszczynski ha intervistato Antonio Papisca della cattedra Unesco
per i diritti umani, la democrazia e la pace dell'Università di Padova.
R. - La guerra
non è servita a nulla. A tanti anni di distanza, ora abbiamo una realtà che non sappiamo
come gestire. In questo momento di recrudescenza della violenza e degli attentati,
vedo qualche cosa di molto ambiguo, che fa dire, da un lato, “ve ne andate, allora
non avete combinato nulla!” e, dall’altra parte, - negli ambienti del terrorismo -
“vedete cosa siamo capaci di fare noi! La situazione del Paese in fondo ce l’abbiamo
in mano noi, in assenza di un’autorità politica, di un governo che sia ampiamente
legittimato e allo stesso tempo capace”.
D. - Si potrebbe obbiettare,
che la guerra ha abbattuto, comunque, una dittatura sanguinaria, come quella di Saddam
Hussein..
R. - Diciamo che ci sono tante altre dittature nel mondo,
alcune esplicite, altre un po’ più ambigue. Da qui, appunto, l’accusa fatta alla Comunità
internazionale di usare due pesi e due misure. In presenza di situazioni come quella
irachena andando indietro all’epoca di Saddam, c’è da interrogarsi se la guerra in
quanto tale e l’occupazione del territorio siano la via più appropriata per farvi
fronte.
D. - L’Iraq era già prima un Paese fortemente frazionato da
un punto di vista etnico, da un punto di vista religioso…Quelli che erano le vittime
di un tempo, si sono trasformate in un certo senso nei carnefici di oggi?
R.
- Sono situazioni che esasperano certe discriminazioni latenti, esasperano appunto
le faide, esasperano la violenza e chi è violento approfitta poi delle situazioni
per conseguire risultati di instabilità. Quindi assistiamo addirittura a immigrazioni
forzate, come ad esempio quelle che stanno avvenendo negli ambienti dei cristiani
e, ancora una volta, qui gli iracheni dimostrano di non essere in grado di far fronte
a questa situazione. Il problema è essenzialmente politico, quindi occorre che la
comunità internazionale, trovi maniera di sostenere un processo di riconciliazione
all’interno del Paese, è questo che deve avvenire, e quindi sicuramente bisognerà
pensare a formare sempre più efficacemente forze di pubblica sicurezza locali e indigene,
ma allo stesso tempo occorre un gran progetto, che veda la Comunità internazionale,
con l’Onu al centro, con la Lega degli Stati Arabi, l’Organizzazione della Conferenza
islamica eccetera, attive insieme per aiutare il processo di recupero della politica
in Iraq.