Continua in Libia il dramma dei 250 profughi e richiedenti asilo eritrei liberati
il 16 luglio dal carcere di Brak, nel cuore del deserto libico. La maggior parte di
loro – secondo quanto si legge su Avvenire - si trova in questi giorni nella città
di Sebah, dove tuttavia non c’è riparo né opportunità di lavoro e dove il permesso
di soggiorno, ricevuto all’uscita dalla prigione, è valido ma solo per tre mesi. Un
centinaio di loro si trova invece a Tripoli, capitale del Paese, in condizioni, tuttavia,
di permanenza illegale, partiti grazie ad una colletta dei compagni di sventura: sono
gli uomini feriti in maniera grave durante la rivolta di Misratha, il 29 giugno scorso,
e che ora, dopo esser stati abbandonati per giorni nelle carceri di Brak, possono
forse ricevere le cure necessarie. A richiamare l’attenzione su questa drammatica
vicenda è don Mussie Zerai, sacerdote eritreo e presidente dell’associazione Habeshia
che da settimane si batte per la tutela di questi uomini. Dopo la loro scarcerazione
– è il suo appello – i riflettori dei media si sono spenti, mentre invece tanto l’Italia
quanto i Paesi dell’Unione Europea - afferma il sacerdote - “devono accogliere questi
ragazzi, offrire loro la possibilità di chiedere asilo politico e costruirsi una nuova
vita”. Anche perché – sottolinea padre Zerai – alcuni dei profughi sono fra coloro
che furono respinti dall’Italia, nell’estate del 2009, a bordo di barconi carichi
di migranti e richiedenti asilo, provenienti dalle coste libiche. “Abbiamo i nomi
di cento respinti” conclude il sacerdote. (C.D.L.)