Israele: padre Neuhaus in difesa dei figli degli immigrati a rischio espulsione
Una “soluzione giusta e rispettosa dei diritti” dei figli degli immigrati a rischio
espulsione. È quanto chiesto a gran voce dal vicario patriarcale delle comunità cattoliche
di espressione ebraica, il gesuita David Neuhaus. “Sono bambini – spiega all'agenzia
Sir il vicario – che frequentano le scuole israeliane, parlano ebraico e sono perfettamente
integrati nella nostra società. Per loro un ritorno nella patria dei genitori, che
non hanno mai visitato, potrebbe risultare uno shock. Questi piccoli conoscono solo
Israele”. Per il religioso, quindi, è quanto mai “urgente stabilire dei criteri che
salvaguardino i diritti di questi bambini e quelli delle loro famiglie”. Anche la
Chiesa di Gerusalemme è in prima linea nell’aiutare i lavoratori immigrati, tra loro
molti cristiani e cattolici. “La maggioranza di questi bambini è cristiana – prosegue
il gesuita - ma ha un senso piuttosto vago di cosa significa essere cristiani. Come
vicariato ebreofono, abbiamo cominciato il catechismo e dato il via a tutta una serie
di iniziative volte a dare loro i fondamenti cristiani”. “Se rimarranno in Israele
questi bambini rappresenteranno una grande sfida per la Chiesa locale – aggiunge ancora
padre David Neuhaus - educarli alla fede cristiana in ebraico, la loro lingua, e far
conoscere loro che esiste una chiesa israeliana ebreofona. Lo sforzo deve continuare
con un’apertura sempre maggiore verso i migranti”. Il governo israeliano ha cominciato
il 25 luglio a discutere dello status legale dei figli di lavoratori stranieri, minacciati
di espulsione dal Paese. Si tratta, in particolare, di 1.200 bambini tagliati fuori
da una sanatoria governativa del 2006 che ha garantito lo status giuridico ad oltre
600 figli di lavoratori immigrati. Nel corso della riunione del 25 luglio la commissione
creata ad hoc per la soluzione del problema ha proposto al premier Netanyahu di concedere
il permesso di residenza a tutti i bambini che sono giunti in Israele quando avevano
meno di tredici anni e ai loro fratelli e sorelle più giovani e che hanno vissuto
nel Paese almeno cinque anni e risultano iscritti a una delle scuole statali. Il governo
ha deciso di continuare la discussione nella sua prossima seduta prima di adottare
una decisione. (M.G.)