Cambogia: tribunale Onu condanna il "compagno Duch" per crimini contro l'umanità
Il tribunale misto istituito dall’Onu in Cambogia per i crimini commessi dai Khmer
Rossi di Pol Pot ha emesso la prima condanna contro uno dei leader di quel regime,
il “compagno Duch”: 35 anni di prigione per crimini di guerra e contro l'umanità.
L’uomo fu responsabile del carcere di Tuol Sleng, nei pressi di Phnom Penh, dove morirono
tra le 12 mila e le 16 mila persone. Durante il processo, iniziato a marzo, Duch ha
riconosciuto di essere a capo della prigione, ma ha negato di aver commesso omicidi,
sostenendo di aver obbedito ad ordini superiori. La pena comminata oggi potrebbe essere
ridotta di 11 anni – già scontati – e di altri 5, per una precedente detenzione illegale
rispetto alle leggi cambogiane. Il verdetto ha suscitato polemiche tra i familiari
delle vittime, che chiedevano per lui l’ergastolo. Al microfono di Giada Aquilino,
ce ne parla Emilio Asti, docente di Culture orientali all’Università Cattolica,
che per anni ha partecipato a progetti di cooperazione in Cambogia:
R. – Il terribile
ricordo degli anni dei Khmer Rossi pesa ancora sul Paese: riappaiono i fantasmi del
passato in una nazione che non è ancora riuscita a superare quest’enorme trauma collettivo.
Risulta quindi doloroso fare i conti con il passato; antiche ferite vengono riaperte:
moltissimi hanno visto i loro familiari uccisi.
D. – Duch, che negli
ultimi anni ha detto di essersi convertito al cristianesimo, ha sempre sostenuto di
non aver avuto altra scelta che eseguire gli ordini. Ora è possibile uno sconto di
pena. Come vengono accolti, in Cambogia, i lavori e le sentenze di questo tribunale
istituito dall’Onu?
R. – C’è molta perplessità in tutto il Paese. Dobbiamo
ricordarci che la storia della Cambogia è stata un susseguirsi di vicende molto cruente.
Le lotte intestine c’erano anche prima dell’avvento al potere dei Khmer Rossi e la
società cambogiana era traumatizzata da diversi anni di guerra e da interventi stranieri.
Occorrerebbe una ricostruzione soprattutto psicologica del tessuto sociale e chiaramente
questo è un processo che richiede tempo.
D. – Il fatto che alcuni leader
ex Khmer Rossi facciano parte dell’attuale governo o abbiano ricoperto importanti
incarichi può frenare il lavoro del tribunale sui crimini commessi negli anni Settanta?
R.
– In un certo qual modo sì. La Cambogia è un Paese che, pur affermando di aver voltato
pagina, rimane ancora profondamente legata a questo passato fatto di lotte, massacri.
E’ un Paese che non riesce ancora a trovare una propria stabilità ed inoltre emergono,
sempre più chiaramente, le profonde contraddizioni della situazione attuale: un libero
mercato quasi senza regole, una corruzione generalizzata a tutti i livelli, profondi
squilibri sociali, soprattutto degrado ambientale, deforestazione, mancanza di punti
di riferimento ed un alto tasso di violenza. La situazione generale è tutt’ora molto
instabile.
D. – Ci sono invece degli aspetti positivi da citare?
R.
– Direi di sì. Soprattutto gli interventi attuati dal Pime e dalla Cei. La Cei ha
aperto una scuola tecnica nei pressi della capitale per fornire un’istruzione di base
ai giovani appartenenti ai ceti più poveri ed ha anche avviato dei programmi di alfabetizzazione.
E’ un progetto che cerca di coinvolgere la popolazione locale per dare un segnale
di speranza per i ragazzi; questo programma è stato citato in un volume pubblicato
dalla Conferenza Episcopale Italiana: “L’otto per mille, la Chiesa italiana e il Terzo
mondo”.