Presentato a Roma “Il diario di Bobby Sands. Storia di un ragazzo irlandese”
A pochi giorni dai disordini che hanno riportato Belfast nelle cronache giornalistiche,
è stato presentato ieri a Roma il libro di Silvia Calamati intitolato “Il diario di
Bobby Sands. Storia di un ragazzo irlandese”, pubblicato da Castelvecchi Editore.
Bobby Sands, detenuto per quattro anni nel carcere di Long kesh, vi morì nel 1981
a soli 27 anni, dopo 66 giorni di sciopero della fame. E’ divenuto il simbolo della
lotta per l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. Fausta Speranza ha intervistato
l’autrice Silvia Calamati: R. – Questi
ragazzi vanno tutti sotto i 30 anni, per cui alcuni hanno anche 16, 17 anni. Vivere
in condizioni disumane, trattati come animali, nudi con solo una coperta per coprirsi,
con pestaggi e maltrattamenti quotidiani, è stato veramente un inferno. Non è un caso
che persone che hanno fatto questa esperienza e che adesso ormai cominciano ad avere
più di 50 anni, stanno morendo prematuramente, proprio perché il fisico ha avuto uno
shock. E’ stata un’esperienza così incredibile, quasi un campo di concentramento.
E una delle cose che trovo molto difficile da capire è perché ci sia stata la decisione
del governo britannico di abbattere questo luogo che, da un certo punto di vista,
dovrebbe essere lasciato ai posteri non come condanna, ma per ricordare. Non si può
abbattere Mauthausen, non si può abbattere il campo di concentramento di Auschwitz,
serve per le nuove generazioni, perché è una dimensione in cui sono avvenute delle
cose terribili, ma che permette loro di capire che queste cose non si devono ripetere.
Se noi cancelliamo questi segni del tempo, segni della storia, non rendiamo giustizia
anche a coloro che così tanto hanno sofferto all’interno delle mura del carcere di
Long Kesh.
D. – Che cosa è successo nell’Irlanda del Nord dagli accordi
di pace del Venerdì Santo di 12 anni fa?
R. – Tantissime cose sono cambiate:
non abbiamo più i soldati per le strade, la gente ha girato pagina, da un certo punto
di vista, nel considerare la guerra una cosa che non può più tornare. Sicuramente
la società è tanto cambiata in questi 12 anni, però io non mi sento ancora di dire
che ci sia pace in Irlanda del Nord. Pace per me vuol dire giustizia, pace vuol dire
fare i conti con il passato, non avere la paura di portare i responsabili che hanno
commesso uccisioni, che hanno commesso maltrattamenti, che hanno represso la popolazione
davanti alla giustizia. Pace per me vuol dire creare una società diversa. Ricordo
che dalla firma dell’accordo del Venerdì Santo si sono acuiti moltissimo dei problemi
sociali. La piccola criminalità è aumentata. Nel luglio dell’anno scorso, in un solo
mese, ci sono stati 30 suicidi. I suicidi tra i giovani, soprattutto i giovanissimi,
stanno diventando proprio un fenomeno endemico e l’assenza di guerra - anche se ci
sono, come è stato dimostrato da recentissimi avvenimenti, casi di violenza in questi
giorni - non vuol dire automaticamente la creazione di una società nuova. Una società
nuova vuol dire creare delle strutture, delle istituzioni, dare un futuro ai giovani,
insegnare che democrazia vuol dire partecipazione alla politica, vuol dire la possibilità
di vivere una società normale, soprattutto dare delle opportunità, opportunità lavorative,
ad entrambe le comunità - ricordo che le comunità, nazionalista e cattolica, sono
ancora discriminate, nell’assegnazione dei lavori, anche se non come ai tempi del
conflitto – soprattutto una società in cui le persone si sentano parte di uno Stato
che le rappresenta. Questo non è ancora avvenuto nell’Irlanda del Nord. E questa è
la grossa sfida che il governo britannico si trova ad affrontare nei prossimi anni. Il
libro è stato presentato ieri pomeriggio nella sede di Roma del Parlamento Europeo
alla presenza della vicepresidente Roberta Angelli. Fausta Speranza
le ha chiesto il significato di questa scelta: R. – Perché
questo libro parla della storia di un ragazzo che si è lasciato morire di fame, pur
di difendere i diritti umani fondamentali. Il suo esempio poi fu seguito da altri
ragazzi. Parliamo di ragazzi giovanissimi, che erano animati da un forte senso della
nazione, da un forte senso dell’identità nazionale, da un forte senso di mettersi
a disposizione proprio del popolo, del loro popolo. Quindi, io credo che questo pezzo
della storia europea non debba essere dimenticato e anzi debba ancora far parte della
memoria collettiva, soprattutto delle giovani generazioni. Perché c’è stato tanto
sacrificio e questi ragazzi, dobbiamo ricordarlo, erano cattolici e ghettizzati in
quanto cattolici. Quindi, era una ghettizzazione, un’esclusione anche sociale, anche
scolastica, ma che partiva dal fatto che la loro prima colpa era quella di essere
cattolici.
D. – La discriminazione, dunque, è al centro di queste storie,
e oggi può insegnare molto, perché ancora oggi c’è discriminazione: anche nei Paesi
europei?
R. – C’è discriminazione anche nei Paesi europei. E nei confronti
dei cristiani, dei cattolici, c’è ancora una forte discriminazione nel mondo. Ci sono
ancora delle persecuzioni in molti Stati e in molte regioni del mondo e quindi mantenere
la memoria su questi temi e mantenere alta la vigilanza proprio sulla tutela dei diritti
umani e la libertà anche di professare la propria fede religiosa, credo sia un impegno
che in Europa debba, possa essere una priorità.