Nave libica in Egitto: gli aiuti saranno portati a Gaza
Sono sbarcate stamani nel porto egiziano di Al Arish le circa 2000 tonnellate di aiuti
umanitari e di medicinali destinati ai palestinesi della Striscia di Gaza, portati
dalla nave libica Amalthea su iniziativa della Fondazione Gheddafi. Il cargo, che
intendeva inizialmente forzare l’embargo imposto da Israele, ieri ha cambiato la rotta
per approdare nel nord del Sinai evitando scontri, probabilmente anche grazie ad una
serrata attività diplomatica. Ancora viva, intanto, resta l'eco del sanguinoso arrembaggio
israeliano alla nave turca Mari Marmara, il 31 maggio scorso, nel corso del quale
furono uccisi nove attivisti turchi filopalestinesi. Da allora diversi sono stati
i tentativi internazionali di portare aiuti diretti alla popolazione della Striscia.
Quali gli effetti di questa attività e quali oggi ancora le esigenze principali della
popolazione dell’area? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a Tommaso Saltini,
direttore progetti della Ong Associazione di Terrasanta:
R. – Le persone
a Gaza hanno certamente bisogno di un aiuto materiale, ma non chiedono quello: la
cosa che chiedono a gran voce è la libertà, di poter progettare il loro futuro, muoversi,
viaggiare, visitare i parenti che sono sempre in Terra Santa … Questo è il vero dramma
che vivono! Alimenti e risorse entrano, in vario modo. Per come la vedo io, per come
la vediamo noi, il fatto di non poter approdare con gli aiuti umanitari a Gaza, comunque
necessari, comunque utili, conferisce a questo dramma la dimensione di un problema
grave, politico, non risolto.
D. – Oltre questo, a livello pratico,
c’è qualche cambiamento? Ci sono effetti di questa mobilitazione internazionale sulle
persone?
R. – Per quanto riguarda gli ultimi mesi e per le informazioni
che abbiamo noi, no. La situazione è rimasta uguale, anzi: sono proprio questi non-cambiamenti
e queste non-soluzioni che portano a vedere sempre nero. Non c’è una grande leadership
esterna, ed è difficile che i soggetti “litiganti” da soli possano ipotizzare soluzioni.
C’è rigidità su entrambi i fronti.
D. – Lei è in contatto costante anche
con il parroco e la comunità cristiane di Gaza: che cosa stanno facendo loro in questo
preciso momento, per venire incontro anche ai bisogni che non sono solo quelli del
cibo, ma è l’assenza di libertà, la mancanza di lavoro …
R. – Concretamente,
noi stiamo cercando di fare fronte soprattutto ai bisogno degli ultimi, dei bambini,
in particolare dei bambini con problemi di disabilità. I religiosi, in particolare
il parroco e il vice-parroco, stanno vicini alla loro gente, vivono con loro i loro
bisogni, non solo spirituali ma anche materiali, quindi il tema più grande – il tema
del lavoro – più che dare degli aiuti, cercano di capire come fare per trovare lavoro
e ad offrire un lavoro ai tanti che lo hanno perso. Si fa fatica ad entrare nei lavori
più istituzionali in quanto cristiani; nuove attività commerciali è molto faticoso
aprirne, avere viveri sufficienti per alimentarli. L’unica idea concreta che era venuta,
e nel caso di qualche persona siamo riusciti ad aiutarli a realizzarla, è quella di
acquistare una licenza per fare il taxi driver, essendo un’attività autonoma; anche
se fa un po’ sorridere perché comunque fare il taxi driver nella Striscia di Gaza
vuol dire comunque muoversi avanti e indietro in una striscia che è lunga pochi chilometri
e larga ancora meno. Però, l’obiettivo è cercare insieme di pensare a possibili soluzioni.
Non è facile …