In migliaia ieri a Srebrenica per ricordare il genocidio di 15 anni fa. Dalla Serbia
un appello alla riconciliazione
Grande commozione ieri tra gli oltre 50mila presenti alla commemorazione del 15mo
anniversario della strage di Srebrenica, dove più di 8000 musulmani bosniaci furono
trucidati dalla truppe del generale Ratko Mladic, ancora latitante. 775 le salme tumulate
nel cimitero di Potocari, le ultime sottratte all’occultamento delle fosse comuni.
Srebrenica è una macchia sulla nostra coscienza collettiva, ha sottolineato la Casa
Bianca in un messaggio letto per l’occasione, mentre tra le autorità balcaniche ed
europee presenti, il Presidente Serbo Tadic ha ribadito l’impegno a catturare tutti
i responsabili per chiudere “questa pagina tragica per tutta la ex Jugoslavia”. Gabriella
Ceraso ne ha parlato con Francesco Strazzari, docente di relazioni internazionali
alla Scuola Normale Superiore di Pisa R. - Il massacro di Srebrenica fu voluto
da pochi, perpetrato da più e tollerato da quasi tutti. Ciò premesso, sicuramente
la cosa che spicca di più tra gli aspetti irrisolti, è il fatto che Ratko Mladic,
che disponeva di un potere di fatto di vita e di morte, è il grande nome che manca
alla giustizia. Mladic rappresenta da questo punto di vista un’eccezione perché gli
ufficiali che lo supportarono in quei giorni sono stati condannati con delle pene
all'ergastolo, che riportano in calce la scritta concorso in genocidio. Il fatto stesso
che si parli apertamente e ufficialmente di genocidio io lo ritengo personalmente
una novità storica.
D. – Altro aspetto dolente, ma significativo,
sono le mancate sepolture. Altri corpi mancano all’appello di quegli oltre 8 mila.
R.
- Sicuramente, però c’è un lavoro paziente, meticoloso, che ha portato a ridare un
nome a tutti coloro che morirono. Ed è un fatto importante e quasi unico direi.
D.
– Si è discusso anche molto sul non intervento dell’Onu. Erano truppe olandesi in
quell’occasione. Una pagina su cui ancora rimane secondo lei qualcosa da dire?
R.
– Fu una partita difficilissima che creò instabilità anche politica all’interno dell’Olanda,
che proprio in virtù di questa vicenda storica è oggi il Paese in Europa più intransigente
rispetto ai passi avanti che i Paesi balcanici fanno nella prospettiva di avvicinamento
all’Unione europea. Dall’altra parte, alle Nazioni Unite, vengono ancora oggi rivolte
le critiche. Gli occhi sono puntati alla scena ultima, alla tragedia. Io credo che
ci sia ancora molto da fare, perché non si ripetano quelle condizioni. Sul come se
ne è usciti, cioè sulla nascita di una serie di iniziative che hanno mosso la giustizia
internazionale, su questo versante si sono fatti dei passi avanti almeno sul piano
storico.
D. – Le chiedo in che modo questa pagina di storia
a 15 anni di distanza interroga oggi la comunità internazionale?
R.
– Interroga, io credo, come tutti i massacri cui abbiamo assistito. Forse un po’ di
più perché l’Occidente aveva reporter, aveva giornalisti in ogni angolo e quindi non
ci si può trincerare dietro al “non abbiamo visto”. L’insegnamento che ne esce fuori
è quello che è importante operare, affinché, la memoria, la giustizia sanciscano un'ipotesi
di riconciliazione e di verità e non invece un momento che ravviva l’avvitarsi perverso
degli odi e degli egoismi.