Commemorato oggi nel cimitero di Potocari, a Srebenica, il terribile eccidio di 15
anni fa
Quindici anni fa a Srebrenica, città nella parte orientale della Bosnia Erzegovina,
si consumava una delle pagine più drammatiche del Novecento, un grande omicidio di
massa, definito genocidio dalla giustizia internazionale. Oltre 8 mila tra uomini
e ragazzi di etnia musulmana, per il 78 per cento civili, furono uccisi dalle truppe
dell’Esercito serbo-bosniaco del generale Ratko Mladic. Almeno 60 mila persone hanno
raggiunto oggi il cimitero di Potocari, alla periferia di Srebrenica, per assistere
alla cerimonia di commemorazione e alla tumulazione di 775 vittime di quel massacro.
Un appello alla riconciliazione fra tutti i Paesi dell’ex Jugoslavia è giunto per
l’occasione dal presidente serbo Boris Tadic. "L'orrore di Srebrenica è una macchia
sulla nostra coscienza collettiva", è stato il commento del presidente americano Barack
Obama. Il massacro di Srebrenica rappresenta una delle pagine più controverse della
recente storia europea, tutt'ora irrisolta sotto tanti punti di vista. E’ quanto sottolinea
al microfono di Gabriella Ceraso, il professor Francesco Strazzeri,
docente di Relazioni internazionali alla Scuola Normale Superiore di Pisa.
R.
- Il massacro di Srebrenica fu voluto da pochi, perpetrato da più e tollerato da quasi
tutti. Ciò premesso, sicuramente la cosa che spicca di più tra gli aspetti irrisolti,
è il fatto che Ratko Mladic, che disponeva di un potere di fatto di vita e di morte,
è il grande nome che manca alla giustizia. Mladic rappresenta da questo punto di vista
un’eccezione perché gli ufficiali che lo supportarono in quei giorni sono stati condannati
con delle pene all'ergastolo, che riportano in calce la scritta concorso in genocidio.
Il fatto stesso che si parli apertamente e ufficialmente di genocidio io lo ritengo
personalmente una novità storica.
D. – Altro aspetto
dolente, ma significativo, sono le mancate sepolture. Altri corpi mancano all’appello
di quegli oltre 8 mila.
R. - Sicuramente, però c’è un
lavoro paziente, meticoloso, che ha portato a ridare un nome a tutti coloro che morirono.
Ed è un fatto importante e quasi unico direi.
D. – Si
è discusso anche molto sul non intervento dell’Onu. Erano truppe olandesi in quell’occasione.
Una pagina su cui ancora rimane secondo lei qualcosa da dire?
R.
– Fu una partita difficilissima che creò instabilità anche politica all’interno dell’Olanda,
che proprio in virtù di questa vicenda storica è oggi il Paese in Europa più intransigente
rispetto ai passi avanti che i Paesi balcanici fanno nella prospettiva di avvicinamento
all’Unione europea. Dall’altra parte, alle Nazioni Unite, vengono ancora oggi rivolte
le critiche. Gli occhi sono puntati alla scena ultima, alla tragedia. Io credo che
ci sia ancora molto da fare, perché non si ripetano quelle condizioni. Sul come se
ne è usciti, cioè sulla nascita di una serie di iniziative che hanno mosso la giustizia
internazionale, su questo versante si sono fatti dei passi avanti almeno sul piano
storico.
D. – Le chiedo in che modo questa pagina di
storia a 15 anni di distanza interroga oggi la comunità internazionale?
R.
– Interroga, io credo, come tutti i massacri cui abbiamo assistito. Forse un po’ di
più perché l’Occidente aveva reporter, aveva giornalisti in ogni angolo e quindi non
ci si può trincerare dietro al “non abbiamo visto”. L’insegnamento che ne esce fuori
è quello che è importante operare, affinché, la memoria, la giustizia sanciscano un'ipotesi
di riconciliazione e di verità e non invece un momento che ravviva l’avvitarsi perverso
degli odi e degli egoismi.