2010-06-30 14:58:52

I 50 anni di indipendenza della RD Congo. I vescovi: fondare una cultura basata sul bene comune


La Repubblica Democratica del Congo festeggia oggi il 50.mo dell’indipendenza dal Belgio. Numerose le manifestazioni in corso: a Kinshasa è presente l’arcivescovo Luigi Travaglino, in qualità di rappresentante del Papa, insieme con il re del Belgio, Alberto II, il presidente sudafricano, Jacob Zuma, e il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon. Nel messaggio inviato al popolo congolese per l’occasione, la plenaria dei vescovi ha voluto nei giorni scorsi non solo rendere grazie al Signore per il cammino compiuto nel Paese attraverso l’annuncio del Vangelo, ma anche mettere in luce aspetti problematici della giovane Repubblica, invocando per il futuro una nuova cultura fondata sul rispetto del bene comune e la collaborazione della comunità internazionale. Ma qual è oggi il volto del Paese africano? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a padre Franco Bordignon, religioso Saveriano, raggiunto telefonicamente a Bukavu:RealAudioMP3  
R. – E’ difficile definire un volto dopo 50 anni di traversie, di tribolazioni, di guerre interne, esterne, fratricide, tribali… Da una parte, possiamo dire che c’è un volto di gioia e di speranza verso l’avvenire, che cambierà grazie alla costanza, grazie anche alla non violenza del popolo congolese. E’ soprattutto su questo che la lettera dei vescovi fa leva per un Paese migliore, perché è veramente un Paese benedetto da Dio in tutti i sensi. Dall’altra parte, però, c’è una situazione che pesa come una cappa di piombo e dalla quale la gente non riesce a liberarsi, ed è la situazione politica legata ai dirigenti attuali e ai dirigenti passati. Come se il Congo fosse una proprietà privata, come lo era stato fino al 1908: ora appartiene ai dirigenti.

D. – Ed è infatti la situazione che i vescovi denunciano: diseguaglianze sociali, l’uomo assente dal centro delle preoccupazioni economiche e politiche…

R. – La gente non è più considerata. La gente, nonostante rivendichi i propri diritti, nonostante rivendichi la propria dignità, è considerata come qualcosa di cui si può anche fare a meno: 50 anni sono 50 anni, mezzo secolo in cui il popolo ha camminato veramente ed è arrivato al punto di sapere decidere, di sapersi autodeterminare, nonostante tutto. Ma si domanda: di tutto questo, cosa riceviamo noi? Se c’è un sentimento che manca nel popolo, oggi, possiamo dire che è il sentimento di patriottismo, per cui tutti si sentano figli della stesa Patria, dello stesso Paese. Per percepirlo, dovrebbero poter beneficiare delle ricchezze e del benessere del Paese.

D. – Qual è stato il ruolo del Paese, in questo lungo percorso durato mezzo secolo?

R. – Non fosse stato per la Chiesa, non avremmo oggi il Congo che abbiamo. La Chiesa ha saputo prevenire e lenire le ferite che ci sono state durante tutti questi anni, dare coraggio, riportare la concordia attraverso il Magistero, attraverso il Vangelo calato nella realtà. La Chiesa ha saputo creare questa speranza che da inizio ad un nuovo Congo.

D. – I vescovi sottolineano l’importanza di rianimare la speranza del popolo: è difficile, in questa situazione?

R. – I vescovi si sono impegnati a fare tutto un cammino di presa in carico, dell’autogestione della comunità e quindi di non lasciare tutto nelle mani dei dirigenti, come se fosse affar loro. 
Un Congo “votato non alla morte, ma alla vita, non condannato alla povertà, ma alla ricchezza, non destinato al sottosviluppo, ma al progresso”: con queste parole, riportate da Misna, l’arcivescovo di Kinshasa, Laurent Monsengwo Pasinya, ha descritto il Paese nell’omelia che ha pronunciato in occasione del 50.mo anniversario dell’indipendenza della nazione africana. Il presule si rivolge direttamente ai cittadini, ricordando loro le bellezze e la ricchezza di cui il Congo dispone, ma s’interroga, al tempo stesso, sul modo in cui sono state sfruttate in passato, “senza produrre benessere per tutti” e li esorta a prendersi “un impegno per costruire un Congo nuovo, di prosperità, più grande e più bello, degno di tutte le sue potenzialità e dei doni ricevuti dal Signore”. L’obiettivo, afferma, dev’essere edificare un Paese “fondato sul lavoro, la giustizia e la pace, da lasciare alle generazioni future”. Per questo, il presule conclude invocando “coraggio e forza per operare un cambiamento profondo di mentalità e per un’assunzione di responsabilità”. (A cura di Roberta Barbi)







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