I 50 anni di indipendenza della RD Congo. I vescovi: fondare una cultura basata sul
bene comune
La Repubblica Democratica del Congo festeggia oggi il 50.mo dell’indipendenza dal
Belgio. Numerose le manifestazioni in corso: a Kinshasa è presente l’arcivescovo Luigi
Travaglino, in qualità di rappresentante del Papa, insieme con il re del Belgio, Alberto
II, il presidente sudafricano, Jacob Zuma, e il segretario dell’Onu, Ban Ki-moon.
Nel messaggio inviato al popolo congolese per l’occasione, la plenaria dei vescovi
ha voluto nei giorni scorsi non solo rendere grazie al Signore per il cammino compiuto
nel Paese attraverso l’annuncio del Vangelo, ma anche mettere in luce aspetti problematici
della giovane Repubblica, invocando per il futuro una nuova cultura fondata sul rispetto
del bene comune e la collaborazione della comunità internazionale. Ma qual è oggi
il volto del Paese africano? Gabriella Ceraso lo ha chiesto a padre Franco
Bordignon, religioso Saveriano, raggiunto telefonicamente a Bukavu: R. – E’ difficile
definire un volto dopo 50 anni di traversie, di tribolazioni, di guerre interne, esterne,
fratricide, tribali… Da una parte, possiamo dire che c’è un volto di gioia e di speranza
verso l’avvenire, che cambierà grazie alla costanza, grazie anche alla non violenza
del popolo congolese. E’ soprattutto su questo che la lettera dei vescovi fa leva
per un Paese migliore, perché è veramente un Paese benedetto da Dio in tutti i sensi.
Dall’altra parte, però, c’è una situazione che pesa come una cappa di piombo e dalla
quale la gente non riesce a liberarsi, ed è la situazione politica legata ai dirigenti
attuali e ai dirigenti passati. Come se il Congo fosse una proprietà privata, come
lo era stato fino al 1908: ora appartiene ai dirigenti.
D. – Ed è infatti
la situazione che i vescovi denunciano: diseguaglianze sociali, l’uomo assente dal
centro delle preoccupazioni economiche e politiche…
R. – La gente non
è più considerata. La gente, nonostante rivendichi i propri diritti, nonostante rivendichi
la propria dignità, è considerata come qualcosa di cui si può anche fare a meno: 50
anni sono 50 anni, mezzo secolo in cui il popolo ha camminato veramente ed è arrivato
al punto di sapere decidere, di sapersi autodeterminare, nonostante tutto. Ma si domanda:
di tutto questo, cosa riceviamo noi? Se c’è un sentimento che manca nel popolo, oggi,
possiamo dire che è il sentimento di patriottismo, per cui tutti si sentano figli
della stesa Patria, dello stesso Paese. Per percepirlo, dovrebbero poter beneficiare
delle ricchezze e del benessere del Paese.
D. – Qual è stato il ruolo
del Paese, in questo lungo percorso durato mezzo secolo?
R. – Non fosse
stato per la Chiesa, non avremmo oggi il Congo che abbiamo. La Chiesa ha saputo prevenire
e lenire le ferite che ci sono state durante tutti questi anni, dare coraggio, riportare
la concordia attraverso il Magistero, attraverso il Vangelo calato nella realtà. La
Chiesa ha saputo creare questa speranza che da inizio ad un nuovo Congo.
D.
– I vescovi sottolineano l’importanza di rianimare la speranza del popolo: è difficile,
in questa situazione?
R. – I vescovi si sono impegnati a fare tutto
un cammino di presa in carico, dell’autogestione della comunità e quindi di non lasciare
tutto nelle mani dei dirigenti, come se fosse affar loro. Un Congo “votato
non alla morte, ma alla vita, non condannato alla povertà, ma alla ricchezza, non
destinato al sottosviluppo, ma al progresso”: con queste parole, riportate da Misna,
l’arcivescovo di Kinshasa, Laurent Monsengwo Pasinya, ha descritto il Paese nell’omelia
che ha pronunciato in occasione del 50.mo anniversario dell’indipendenza della nazione
africana. Il presule si rivolge direttamente ai cittadini, ricordando loro le bellezze
e la ricchezza di cui il Congo dispone, ma s’interroga, al tempo stesso, sul modo
in cui sono state sfruttate in passato, “senza produrre benessere per tutti” e li
esorta a prendersi “un impegno per costruire un Congo nuovo, di prosperità, più grande
e più bello, degno di tutte le sue potenzialità e dei doni ricevuti dal Signore”.
L’obiettivo, afferma, dev’essere edificare un Paese “fondato sul lavoro, la giustizia
e la pace, da lasciare alle generazioni future”. Per questo, il presule conclude invocando
“coraggio e forza per operare un cambiamento profondo di mentalità e per un’assunzione
di responsabilità”. (A cura di Roberta Barbi)