L'appello delle Caritas del Mediterraneo all'Europa a non alzare barriere in nord
Africa contro i migranti
Organizzare i Paesi dell’Africa settentrionale come una “barriera” per i flussi migratori
che arrivano dalla fascia subsahariana o dall’Oriente, attraverso il Corno d’Africa,
diretti in Europa. E’ l’idea perseguita da molti Stati del Vecchio continente, ma
ritenuta un’utopia – nonché foriera di violazioni dei diritti umani – da chi vive
a contatto quotidiano con questo fenomeno, nel segno della solidarietà. E’ il caso
delle Caritas del Mediterraneo, che ieri hanno concluso nella città siciliana di Valderice
il Forum “Migramed”. Fabio Colagrande ne ha parlato con padre Cesare Baldi,
direttore di Caritas Algeria:
R.
– A mio parere, è un errore pensare di usare questi nostri Paesi del Nordafrica come
diga, come argine al flusso migratorio soprattutto dal Sud del continente africano,
anche perché non ci sono le sponde naturali, come dovrebbe prevedere una diga. Possiamo
fermare un certo flusso in Libia piuttosto che in Algeria: ma in quel caso, il flusso
troverà altre strade per arrivare poi in Europa.
D.
– Questo, tra l’altro, molto spesso provoca anche delle violazioni dei diritti umani…
R.
– Assolutamente! E questo è l’aspetto più grave e spesso più drammatico. Si è arrivati
a dire che si rischia anche nelle acque mediterranee di violare le Convenzioni di
Ginevra, di violare questo diritto – che è un diritto sacrosanto – di potersi spostare
e di poter cercare lavoro là dove lo si trova, e di poter anche addirittura – e soprattutto
– fuggire da situazioni di difficoltà e qualche volta perfino di terrore e di guerra.
D.
– Questo non crea anche dei problemi anche alle persone, agli operatori che si occupano
di accogliere questi migranti?
R. – Certo che crea problemi,
perché spesso nei nostri Paesi siamo proprio sul filo del rasoio: dobbiamo fare molta
attenzione e allo stesso tempo salvaguardare la legislazione e la volontà delle nazioni
in cui operiamo e, allo stesso tempo, la solidarietà verso persone che sono in difficoltà,
spesso in situazioni precarie di salute. Per cui, anche qui, attenzione a quando parliamo
di persone che arrivano nel "nostro" Mar Mediterraneo, nel "Mare nostrum": nelle loro
prospettive, quando arrivano sulle sponde meridionali del Mediterraneo loro si sentono
già quasi alla meta! Ci illudiamo di respingerli: hanno già fatto migliaia di chilometri,
hanno attraversato situazioni qualche volta inenarrabili. Se vogliamo affrontare il
problema, occorre una politica di sostegno a partire dai Paesi di origine, che non
sono e non possono essere – soprattutto nel caso africano – considerati soltanto come
Paesi-risorsa per i nostri appetiti di carattere soprattutto energetico.