Il vescovo di Nola, Depalma, sullo stabilimento Fiat di Pomigliano d'Arco: persone
e territorio non siano umiliati ma vinca lo sviluppo
Da molte settimane, in Italia tiene banco la questione dello stabilimento della Fiat
di Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli, per il quale l’azienda torinese aveva
ventilato nei mesi scorsi la chiusura. La proposta dell’azienda per ovviare a questo
esito drammatico per migliaia di operai contiene misure che sono state accolte soltanto
da una parte dei sindacati di categoria, che si sono così divisi, suscitando numerose
reazioni a livello politico e sociale. Anche la Chiesa locale sta seguendo con attenzione
la vicenda. Fabio Colagrande ha raccolto l'appello del vescovo di Nola, Beniamino
Depalma:
R.
– Che Pomigliano non sia sacrificata più del dovuto, che questo territorio non sia
ancora una volta umiliato. Come Chiesa noi cercheremo di vigilare sulla dignità degli
operai, sulla dignità dei diritti dei lavoratori e sulla dignità del lavoro. Questo
momento è tempo di grande senso di responsabilità per tutte le parti: per l’azienda,
per i sindacati e anche per il mondo degli operai.
D.
– C’è una richiesta, un appello particolare che lei fa all’azienda?
R.
– All’azienda io ho chiesto, e chiedo ancora una volta, di fare tutto il possibile,
perché non si perda questa grande occasione di sviluppo in un territorio abbastanza
martoriato, dove è presente la criminalità: che possiate diventare voi il posto di
approdo per 15 mila operai.
D. – Per quanto riguarda
i lavoratori e i sindacati, lei fa un appello anche all’unità...
R.
– Ai sindacati io chiedo di ritrovare l’unità, perché in questo momento interessa
lavorare e perché interessi il lavoro alla gente.
D.
– Qual è la situazione sociale del territorio del quale lei è vescovo?
R.
– E’ un territorio a grave rischio di camorra, di associazioni a delinquere. Dal punto
di vista umano, ci sono grandi risorse e anche grandi possibilità per reagire a questa
mentalità di criminalità organizzata. Ma bisogna vigilare, da parte di tutti. Ecco
perché ho detto è tempo di responsabilità. Guardiamo le situazioni attuali, non apriamo
altri scenari che potrebbero essere molto pericolosi.
D.
– C’è qualcos’altro che vuole aggiungere? Un appello?
R.
– Io vorrei realmente lanciare un appello alla speranza. Innanzitutto, al mondo dei
lavoratori: una grande speranza di non perdere la calma in questo momento e di tenere
ancora in piedi la speranza che qualcosa può succedere. E’ questo l’invito a tutti
noi che siamo in questa situazione. (Montaggio a cura di Maria Brigini)
Sullo
sfondo della vicenda di Pomigliano d’Arco, acquistano particolare rilievo i diversi
incontri che in questi giorni hanno posto al centro di dibattiti il tema dell’imprenditorialità
e i nuovi modelli dell’impresa sociale, capaci di coniugare efficienza e solidarietà.
Uno di questi seminari si è tenuto ieri a Incisa Valdarno, in provincia di Firenze,
in preparazione alla 46.ma Settimana sociale dei cattolici italiani, che si svolgerà
in ottobre a Reggio Calabria. Fabio Colagrande ha sentito sull’argomento uno
dei relatori al Seminario, il prof. Luigino Bruni, doente associato di Etica
ed economia presso l’Università di Milano–Bicocca:
R.
- L'impresa sociale è una delle grandi innovazioni degli ultimi 20 anni, in Italia,
perché nasce da un'intuizione secondo me fondamentale: cioè, che l'impresa è veramente
sociale quando include chi è fuori e quando è capace di far diventare realtà marginali
o escluse protagoniste per un mutuo vantaggio. In altre parole, l'idea che un'impresa
sia veramente costruttrice di bene comune quando mette la persona al centro. La persona
- come ben noto - non è l'individuo, termine che mette in risalto l'essere singolo,
da solo. La persona invece è se stessa solo in rapporto con gli altri. Quindi, quando
noi parliamo di "persona al centro" affermiamo subito la sua dimensione nei rapporti:
anche mentre lavora, mentre produce, mentre consuma. Quando dunque l'impresa riconosce
questa dimensione relazionale, personalista dell'impresa stessa e dell'economia, mette
la persona al centro. E il principio personalista è alla base dell'articolo 41 della
Costituzione.
D. - Qual è dunque la sua opinione sulla
possibile riforma di questo articolo della Costituzione?
R.
- Io credo che quell'articolo sia nato da un periodo di grande convergenza su alcuni
elementi fondamentali della tradizione occidentale, cristiana. Quindi, per toccare
l'articolo 41 c'è bisogno di grande attenzione a un livello molto profondo, perché
quando si mette insieme che la libera iniziativa è importante ed è riconosciuta ma
all'impresa è riconosciuta la funzione sociale, lì si stanno toccando dei pilastri
della cultura occidentale, e cioè la libertà dell'individuo in rapporto alla comunità.
D.
- Ma c'è un modello di impresa per il futuro, che possa coniugare le esigenze del
territorio e la globalizzazione?
R. - Bè, certo, non
c'è una ricetta semplice. Noi abbiamo una grande eredità, in Italia. L'Italia è il
luogo dove sono nate, le imprese. Abbiamo una tradizione che affonda nell'umanesimo
civile, nel Medio Evo, e da dove ci viene la visione per cui l'impresa non è "business
is business", con l'aspetto l'economico separato dal civile. L'impresa nasce promiscua,
nasce "meticcia", intrecciata con l'intera vita civile e culturale. Questo è il modello
italiano. Noi siamo convinti che questa tradizione antica possa offrire oggi, in un'epoca
globalizzata, un'idea di impresa che sappia coniugare le grandi esigenze della globalizzazione
con le radici, con il territorio, con la città. Tornando a una tradizione che è cristiana,
umanista, laica e cattolica insieme, possiamo oggi reimmaginare un'idea di impresa,
di imprenditore, capaci di gestire le complessità contemporanee, di andare oltre la
crisi.