Anno Sacerdotale: il grazie del Papa per l'audacia di Dio che affida se stesso a uomini
deboli. Perdono per lo scandalo degli abusi
Il sacerdozio non è semplicemente «ufficio», ma sacramento: “Dio si serve di un povero
uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro
favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo
le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in
vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella
parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli in tal modo chiami
uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è ciò che in quest’anno
volevamo nuovamente considerare e comprendere”. Così il Papa nell’omelia della Liturgia
Eucaristica da lui presieduta sul Sagrato della Basilica Vaticana a chiusura dell'Anno
Sacerdotale. Il Papa non ha mancato di riferirsi allo scandalo della pedofilia: “Era
da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del sacerdozio non sarebbe piaciuto;
egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché in fin dei conti Dio fosse spinto
fuori dal mondo. E così è successo che, proprio in questo anno di gioia per il sacramento
del sacerdozio, siano venuti alla luce i peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso
nei confronti dei piccoli, nel quale il sacerdozio come compito della premura di Dio
a vantaggio dell’uomo viene volto nel suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente
perdono a Dio ed alle persone coinvolte, mentre intendiamo promettere di voler fare
tutto il possibile affinché un tale abuso non possa succedere mai più; promettere
che nell’ammissione al ministero sacerdotale e nella formazione durante il cammino
di preparazione ad esso faremo tutto ciò che possiamo per vagliare l’autenticità della
vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare i sacerdoti nel loro cammino,
affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni penose e nei pericoli
della vita”. Quindi ha commentato un passo del Salmo 23: “Il tuo bastone e il tuo
vincastro mi danno sicurezza”: “il pastore – ha detto - ha bisogno del bastone contro
le bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano
il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad
attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della
Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore,
il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti
che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio
di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti
indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare
l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente
inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non
ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo
diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare
su sentieri difficili e a seguire il Signore”. Ecco il testo integrale dell’omelia:
Cari
confratelli nel ministero sacerdotale,
Cari fratelli e sorelle,
l’Anno
Sacerdotale che abbiamo celebrato, 150 anni dopo la morte del santo Curato d’Ars,
modello del ministero sacerdotale nel nostro mondo, volge al termine. Dal Curato d’Ars
ci siamo lasciati guidare, per comprendere nuovamente la grandezza e la bellezza del
ministero sacerdotale. Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio,
come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute
certe funzioni. Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia
in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire
da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino
le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole
che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano
così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono
a Lui. Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve
di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di
agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso;
che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di
essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che
si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo; che Egli
in tal modo chiami uomini al suo servizio e così dal di dentro si leghi ad essi: è
ciò che in quest’anno volevamo nuovamente considerare e comprendere. Volevamo risvegliare
la gioia che Dio ci sia così vicino, e la gratitudine per il fatto che Egli si affidi
alla nostra debolezza; che Egli ci conduca e ci sostenga giorno per giorno. Volevamo
così anche mostrare nuovamente ai giovani che questa vocazione, questa comunione di
servizio per Dio e con Dio, esiste – anzi, che Dio è in attesa del nostro «sì». Insieme
alla Chiesa volevamo nuovamente far notare che questa vocazione la dobbiamo chiedere
a Dio. Chiediamo operai per la messe di Dio, e questa richiesta a Dio è, al tempo
stesso, un bussare di Dio al cuore di giovani che si ritengono capaci di ciò di cui
Dio li ritiene capaci. Era da aspettarsi che al «nemico» questo nuovo brillare del
sacerdozio non sarebbe piaciuto; egli avrebbe preferito vederlo scomparire, perché
in fin dei conti Dio fosse spinto fuori dal mondo. E così è successo che, proprio
in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, siano venuti alla luce i
peccati di sacerdoti – soprattutto l’abuso nei confronti dei piccoli, nel quale il
sacerdozio come compito della premura di Dio a vantaggio dell’uomo viene volto nel
suo contrario. Anche noi chiediamo insistentemente perdono a Dio ed alle persone coinvolte,
mentre intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinché un tale abuso
non possa succedere mai più; promettere che nell’ammissione al ministero sacerdotale
e nella formazione durante il cammino di preparazione ad esso faremo tutto ciò che
possiamo per vagliare l’autenticità della vocazione e che vogliamo ancora di più accompagnare
i sacerdoti nel loro cammino, affinché il Signore li protegga e li custodisca in situazioni
penose e nei pericoli della vita. Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione
della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende.
Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio,
dono che si nasconde “in vasi di creta” e che sempre di nuovo, attraverso tutta la
debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore. Così consideriamo quanto
è avvenuto quale compito di purificazione, un compito che ci accompagna verso il futuro
e che, tanto più, ci fa riconoscere ed amare il grande dono di Dio. In questo modo,
il dono diventa l’impegno di rispondere al coraggio e all’umiltà di Dio con il nostro
coraggio e la nostra umiltà. La parola di Cristo, che abbiamo cantato come canto d’ingresso
nella liturgia odierna, può dirci in questa ora che cosa significhi diventare ed essere
sacerdote: “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile
di cuore” (Mt 11,29).
Celebriamo la festa del Sacro
Cuore di Gesù e gettiamo con la liturgia, per così dire, uno sguardo dentro il cuore
di Gesù, che nella morte fu aperto dalla lancia del soldato romano. Sì, il suo cuore
è aperto per noi e davanti a noi – e con ciò ci è aperto il cuore di Dio stesso. La
liturgia interpreta per noi il linguaggio del cuore di Gesù, che parla soprattutto
di Dio quale pastore degli uomini, e in questo modo ci manifesta il sacerdozio di
Gesù, che è radicato nell’intimo del suo cuore; così ci indica il perenne fondamento,
come pure il valido criterio, di ogni ministero sacerdotale, che deve sempre essere
ancorato al cuore di Gesù ed essere vissuto a partire da esso. Vorrei oggi meditare
soprattutto sui testi con i quali la Chiesa orante risponde alla Parola di Dio presentata
nelle letture. In quei canti parola e risposta si compenetrano. Da una parte, essi
stessi sono tratti dalla Parola di Dio, ma, dall’altra, sono al contempo già la risposta
dell’uomo a tale Parola, risposta in cui la Parola stessa si comunica ed entra nella
nostra vita. Il più importante di quei testi nell’odierna liturgia è il Salmo 23 (22)
– “Il Signore è il mio pastore” –, nel quale l’Israele orante ha accolto l’autorivelazione
di Dio come pastore, e ne ha fatto l’orientamento per la propria vita. “Il Signore
è il mio pastore: non manco di nulla”: in questo primo versetto si esprimono gioia
e gratitudine per il fatto che Dio è presente e si occupa dell’uomo. La lettura tratta
dal Libro di Ezechiele comincia con lo stesso tema: “Io stesso cercherò le mie pecore
e ne avrò cura” (Ez 34,11). Dio si prende personalmente cura di me, di noi, dell’umanità.
Non sono lasciato solo, smarrito nell’universo ed in una società davanti a cui si
rimane sempre più disorientati. Egli si prende cura di me. Non è un Dio lontano, per
il quale la mia vita conterebbe troppo poco. Le religioni del mondo, per quanto possiamo
vedere, hanno sempre saputo che, in ultima analisi, c’è un Dio solo. Ma tale Dio era
lontano. Apparentemente Egli abbandonava il mondo ad altre potenze e forze, ad altre
divinità. Con queste bisognava trovare un accordo. Il Dio unico era buono, ma tuttavia
lontano. Non costituiva un pericolo, ma neppure offriva un aiuto. Così non era necessario
occuparsi di Lui. Egli non dominava. Stranamente, questo pensiero è riemerso nell’Illuminismo.
Si comprendeva ancora che il mondo presuppone un Creatore. Questo Dio, però, aveva
costruito il mondo e poi si era evidentemente ritirato da esso. Ora il mondo aveva
un suo insieme di leggi secondo cui si sviluppava e in cui Dio non interveniva, non
poteva intervenire. Dio era solo un’origine remota. Molti forse non desideravano neppure
che Dio si prendesse cura di loro. Non volevano essere disturbati da Dio. Ma laddove
la premura e l’amore di Dio vengono percepiti come disturbo, lì l’essere umano è stravolto.
È bello e consolante sapere che c’è una persona che mi vuol bene e si prende cura
di me. Ma è molto più decisivo che esista quel Dio che mi conosce, mi ama e si preoccupa
di me. “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (Gv 10,14), dice la
Chiesa prima del Vangelo con una parola del Signore. Dio mi conosce, si preoccupa
di me. Questo pensiero dovrebbe renderci veramente gioiosi. Lasciamo che esso penetri
profondamente nel nostro intimo. Allora comprendiamo anche che cosa significhi: Dio
vuole che noi come sacerdoti, in un piccolo punto della storia, condividiamo le sue
preoccupazioni per gli uomini. Come sacerdoti, vogliamo essere persone che, in comunione
con la sua premura per gli uomini, ci prendiamo cura di loro, rendiamo a loro sperimentabile
nel concreto questa premura di Dio. E, riguardo all’ambito a lui affidato, il sacerdote,
insieme col Signore, dovrebbe poter dire: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore
conoscono me”. “Conoscere”, nel significato della Sacra Scrittura, non è mai soltanto
un sapere esteriore così come si conosce il numero telefonico di una persona. “Conoscere”
significa essere interiormente vicino all’altro. Volergli bene. Noi dovremmo cercare
di “conoscere” gli uomini da parte di Dio e in vista di Dio; dovremmo cercare di camminare
con loro sulla via dell’amicizia con Dio.
Ritorniamo
al nostro Salmo. Lì si dice: “Mi guida per il giusto cammino a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il
tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza” (23 [22], 3s). Il pastore indica
la strada giusta a coloro che gli sono affidati. Egli precede e li guida. Diciamolo
in maniera diversa: il Signore ci mostra come si realizza in modo giusto l’essere
uomini. Egli ci insegna l’arte di essere persona. Che cosa devo fare per non precipitare,
per non sperperare la mia vita nella mancanza di senso? È, appunto, questa la domanda
che ogni uomo deve porsi e che vale in ogni periodo della vita. E quanto buio esiste
intorno a tale domanda nel nostro tempo! Sempre di nuovo ci viene in mente la parola
di Gesù, il quale aveva compassione per gli uomini, perché erano come pecore senza
pastore. Signore, abbi pietà anche di noi! Indicaci la strada! Dal Vangelo sappiamo
questo: Egli stesso è la via. Vivere con Cristo, seguire Lui – questo significa trovare
la via giusta, affinché la nostra vita acquisti senso ed affinché un giorno possiamo
dire: “Sì, vivere è stata una cosa buona”. Il popolo d’Israele era ed è grato a Dio,
perché Egli nei Comandamenti ha indicato la via della vita. Il grande Salmo 119 (118)
è un’unica espressione di gioia per questo fatto: noi non brancoliamo nel buio. Dio
ci ha mostrato qual è la via, come possiamo camminare nel modo giusto. Ciò che i Comandamenti
dicono è stato sintetizzato nella vita di Gesù ed è divenuto un modello vivo. Così
capiamo che queste direttive di Dio non sono catene, ma sono la via che Egli ci indica.
Possiamo essere lieti per esse e gioire perché in Cristo stanno davanti a noi come
realtà vissuta. Egli stesso ci ha resi lieti. Nel camminare insieme con Cristo facciamo
l’esperienza della gioia della Rivelazione, e come sacerdoti dobbiamo comunicare alla
gente la gioia per il fatto che ci è stata indicata la via giusta.
C’è
poi la parola concernente la “valle oscura” attraverso la quale il Signore guida l’uomo.
La via di ciascuno di noi ci condurrà un giorno nella valle oscura della morte in
cui nessuno può accompagnarci. Ed Egli sarà lì. Cristo stesso è disceso nella notte
oscura della morte. Anche lì Egli non ci abbandona. Anche lì ci guida. “Se scendo
negli inferi, eccoti”, dice il Salmo 139 (138). Sì, tu sei presente anche nell’ultimo
travaglio, e così il nostro Salmo responsoriale può dire: pure lì, nella valle oscura,
non temo alcun male. Parlando della valle oscura possiamo, però, pensare anche alle
valli oscure della tentazione, dello scoraggiamento, della prova, che ogni persona
umana deve attraversare. Anche in queste valli tenebrose della vita Egli è là. Sì,
Signore, nelle oscurità della tentazione, nelle ore dell’oscuramento in cui tutte
le luci sembrano spegnersi, mostrami che tu sei là. Aiuta noi sacerdoti, affinché
possiamo essere accanto alle persone a noi affidate in tali notti oscure. Affinché
possiamo mostrare loro la tua luce.
“Il tuo bastone
e il tuo vincastro mi danno sicurezza”: il pastore ha bisogno del bastone contro le
bestie selvatiche che vogliono irrompere tra il gregge; contro i briganti che cercano
il loro bottino. Accanto al bastone c’è il vincastro che dona sostegno ed aiuta ad
attraversare passaggi difficili. Ambedue le cose rientrano anche nel ministero della
Chiesa, nel ministero del sacerdote. Anche la Chiesa deve usare il bastone del pastore,
il bastone col quale protegge la fede contro i falsificatori, contro gli orientamenti
che sono, in realtà, disorientamenti. Proprio l’uso del bastone può essere un servizio
di amore. Oggi vediamo che non si tratta di amore, quando si tollerano comportamenti
indegni della vita sacerdotale. Come pure non si tratta di amore se si lascia proliferare
l’eresia, il travisamento e il disfacimento della fede, come se noi autonomamente
inventassimo la fede. Come se non fosse più dono di Dio, la perla preziosa che non
ci lasciamo strappare via. Al tempo stesso, però, il bastone deve sempre di nuovo
diventare il vincastro del pastore – vincastro che aiuti gli uomini a poter camminare
su sentieri difficili e a seguire il Signore.
Alla fine del Salmo si
parla della mensa preparata, dell’olio con cui viene unto il capo, del calice traboccante,
del poter abitare presso il Signore. Nel Salmo questo esprime innanzitutto la prospettiva
della gioia per la festa di essere con Dio nel tempio, di essere ospitati e serviti
da Lui stesso, di poter abitare presso di Lui. Per noi che preghiamo questo Salmo
con Cristo e col suo Corpo che è la Chiesa, questa prospettiva di speranza ha acquistato
un’ampiezza ed una profondità ancora più grandi. Vediamo in queste parole, per così
dire, un’anticipazione profetica del mistero dell’Eucaristia in cui Dio stesso ci
ospita offrendo se stesso a noi come cibo – come quel pane e quel vino squisito che,
soli, possono costituire l’ultima risposta all’intima fame e sete dell’uomo. Come
non essere lieti di poter ogni giorno essere ospiti alla mensa stessa di Dio, di abitare
presso di Lui? Come non essere lieti del fatto che Egli ci ha comandato: “Fate questo
in memoria di me”? Lieti perché Egli ci ha dato di preparare la mensa di Dio per gli
uomini, di dare loro il suo Corpo e il suo Sangue, di offrire loro il dono prezioso
della sua stessa presenza. Sì, possiamo con tutto il cuore pregare insieme le parole
del Salmo: “Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita” (23
[22], 6).
Alla fine gettiamo ancora brevemente uno sguardo
sui due canti alla comunione propostici oggi dalla Chiesa nella sua liturgia. C’è
anzitutto la parola con cui san Giovanni conclude il racconto della crocifissione
di Gesù: “Un soldato gli trafisse il costato con la lancia e subito ne uscì sangue
ed acqua” (Gv 19,34). Il cuore di Gesù viene trafitto dalla lancia. Esso viene aperto,
e diventa una sorgente: l’acqua e il sangue che ne escono rimandano ai due Sacramenti
fondamentali dei quali la Chiesa vive: il Battesimo e l’Eucaristia. Dal costato squarciato
del Signore, dal suo cuore aperto scaturisce la sorgente viva che scorre attraverso
i secoli e fa la Chiesa. Il cuore aperto è fonte di un nuovo fiume di vita; in questo
contesto, Giovanni certamente ha pensato anche alla profezia di Ezechiele che vede
sgorgare dal nuovo tempio un fiume che dona fecondità e vita (Ez 47): Gesù stesso
è il tempio nuovo, e il suo cuore aperto è la sorgente dalla quale esce un fiume di
vita nuova, che si comunica a noi nel Battesimo e nell’Eucaristia.
La
liturgia della Solennità del Sacro Cuore di Gesù prevede, però, come canto di comunione
anche un’altra parola, affine a questa, tratta dal Vangelo di Giovanni: Chi ha sete,
venga a me. Beva chi crede in me. La Scrittura dice: “Sgorgheranno da lui fiumi d’acqua
viva” (cfr Gv 7,37s). Nella fede beviamo, per così dire, dall’acqua viva della Parola
di Dio. Così il credente diventa egli stesso una sorgente, dona alla terra assetata
della storia acqua viva. Lo vediamo nei santi. Lo vediamo in Maria che, quale grande
donna di fede e di amore, è diventata lungo i secoli sorgente di fede, amore e vita.
Ogni cristiano e ogni sacerdote dovrebbero, a partire da Cristo, diventare sorgente
che comunica vita agli altri. Noi dovremmo donare acqua della vita ad un mondo assetato.
Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua
morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone
viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado
di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del
ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo
tempo che sono assetati e in ricerca. Amen.